Caratteristiche
etniche del Mastino Napoletano
Testo tratto da: "OBIETTIVO
ZOOTECNICO SUL MASTINO NAPOLETANO",
di Antonio Crepaldi - www.cinofilia-crepaldi.it
Standard Enci / Fci
Si va ad eseguire, in questo contesto, una descrizione delle
caratteristiche etniche del mastino napoletano esclusivamente sulla base del
testo ufficialmente riconosciuto ed attualmente in vigore.Paragrafo per
paragrafo, si trattano soltanto i singoli punti ivi descritti, nella fedele
composizione letteraria e biometrica dello standard nazionale ed
internazionale dal punto di vista burocratico, secondo una metodologia di
studio che acquista uno spazio elaborato di commento esplicativo.
Utilizzazione La classificazione utilitaria, al contempo, tradizionale ed
attuale, non pone dubbi sulla mansione richiesta. Il contesto utilitario
attualmente imperante, però, è quello urbano, per cui prevale un mastino
napoletano dalle caratteristiche più marcate, ovvero, dal tipo espresso
secondo una figura imponente. L’obiettivo funzionale primario, essendo
quello di cane da guardia, difatti, richiede una presenza, dapprima, che sia
deterrente; poi, in caso di necessità, richiede che entri in azione una
macchina animale in grado di fermare l’intrusione estranea nel miglior
modo possibile. Il fenotipo deterrente - in ambito urbano - impone una
presenza voluminosa, secondo delle dimensioni corporee sviluppate in misura
notevole. Nell’intervento risolutivo all’invasione del territorio
sottoposto alla sua sorveglianza, vede il mastino napoletano esprimere le
potenzialità di forza contenute in una struttura anatomica adeguatamente
potente, rispetto alla voluminosità morfologica presentata come deterrente.
Quanto imposto come deterrente, sostanzialmente, trova risposta nella forza
fisica che, all’occorrenza, un mastino napoletano sa dimostrare.
Classificazione Fci
L’appartenenza ai molossoidi di tipo mastino, nel contesto attuale,
immediatamente, esprime il concetto tipologico della razza. Il mastino
napoletano, inoltre, tra i vari molossoidi, morfologicamente, rappresenta il
molosso vero e proprio. Questo concetto si comprende da una classificazione
precisa delle razze appartenenti al gruppo molossoide. La sezione molossoidi
del secondo gruppo (dei dieci gruppi) della classificazione Fci, suddivisa
nel tipo mastino e nel tipo cane da montagna, tuttavia, non rientra nella
classificazione scientifica esatta, bensì si presenta approssimativa. La
difficoltà di classificare le razze canine non ha mai dato, non solo da
parte della Fci, una suddivisione che sia del tutto scientifica o del tutto
utilitaria. La precedente classificazione Fci conteneva il mastino
napoletano sempre nel secondo gruppo, allora denominato dei “cani da
guardia, difesa ed utilità”. Nulla da eccepire su quella classificazione
utilitaria, se non per la mancanza della precisa individuazione delle razze
da guardia vere e proprie, distinguendole all’interno dello stesso gruppo,
per rispettare una specializzazione che s’addice alla nostra razza, quanto
ad altre razze dalle caratteristiche similari. La nostra razza, infatti, si
distingue dalle razze specializzate nella difesa ed in altre mansioni
utilitarie, raggruppate in quello e in questo secondo gruppo. Il secondo
gruppo vigente, per quanto concerne i molossoidi in esso classificati,
altrettanto, non fa chiarezza sulle distinzioni che, in questo caso, più
dell’altro, assumono una valenza scientifica. Il concetto di “tipo
mastino”, come quello di “tipo cane da montagna”, non convincono del
tutto. Le razze classificate nei molossoidi di tipo mastino rappresentano
affatto questa tipologia, come può esserlo, scientificamente, in modo
corretto. Il tipo mastino, dal punto di vista scientifico, in quanto così
classificabile, non tanto per via zootecnica, ma quanto per via zoologica,
oltre che, per via dell’antica denominazione in uso presso gli ambienti
della pastorizia latina, è riferito ai “cani da custodia del gregge”,
che sono di tipo molossoide, quasi tutti, se non tutti, classificati dalla
Fci come cani da montagna, unitamente ad altre razze che non sono “da
montagna”, se considerate dal punto di vista zootecnico, ovvero, dal lato
utilitario, come pure se si prende in considerazione il loro luogo
d’origine (vedi il leonberger, originario di una zona pianeggiante).
Venendo meno la definizione di “mastino”, non resta che constatare
l’appartenenza alla tipologia cardine del gruppo molossoide, ossia, il
“molosso” vero e proprio, al quale si accomunano tutte quelle razze che
non sono tali, ma che gravitano su questa precisa tipologia,
scientificamente descritta da Pierre Mégnin, unitamente alle altre tre
tipologie (lupoide, braccoide, graioide). La sezione dove la Fci raggruppa
il tipo cane da montagna ben rappresenta tale tipologia d’estrazione
molossoide; mentre, la sezione del tipo mastino, in realtà, raggruppa i
molossi e i suoi derivati molossoidi, nella classificazione vigente,
differenziati dai cani da montagna (a pelo lungo) per via del mantello a
pelo corto. Le razze di “tipo molosso”, al centro delle variazioni
molossoidi, che vanno verso le razze a pelo lungo (classificate dalla Fci,
appunto, come cani da montagna) e verso le razze a pelo corto (classificate
dalla Fci, appunto, come mastini, unitamente ai molossi veri e propri),
quindi, rispondono al modello che contempla, oltre al mastino (molosso)
napoletano, poche altre razze, quali il dogue de bordeaux, il bulldog
(inglese), il bullmastiff, il mastiff, il tosa e, forse, qualche altra
razza, ancora attentamente da valutare. Una filiale del tipo molosso si
trova nei “molossoidi di piccola taglia”, classificati dalla Fci nel
nono gruppo (quello dei cani da compagnia), con il bouledogue francese e il
carlino (il boston terrier è un molossoide e non un molosso vero e
proprio).
Aspetto generale
La grande mole è fondamentale in un molosso che, al di là
dell’originaria e generica denominazione partenopea (‘o cane ‘e
presa), prima d’essere un cane da presa, è un cane da guardia, per cui fa
dell’aspetto fisico lo strumento deterrente per antonomasia.
All’occorrenza, successivamente, interviene con la presa. Non a caso, nel
mastino napoletano, come nelle altre razze di molossi veri e propri,
prevalgono le caratteristiche di cane deterrente, rispetto a quelle di cane
da presa, seppur non in modo eccessivo, bensì di quel che basta. Lo scopo
è quello di far desistere e tenere lontano il potenziale intruso, evitando
d’intervenire, come estremo rimedio, per aver fallito quale deterrente, in
quanto non abbastanza convincente sotto l’aspetto generale. Le
caratteristiche utili come deterrente, quindi, dipendono da un aspetto
imponente, che solo la grande mole può fornire nel modo appropriato. La
conformazione generale pesante, pertanto, assume la più rilevante
importanza funzionale. Un molosso pesante, infatti, sfoggia una grande mole,
davvero, convincente in un lasso di tempo istantaneo. L’intruso,
osservando rapidamente il cane, deve convincersi ad andarsene in fretta. Non
solo deve desistere il malintenzionato, ma pure qualsiasi estraneo deve
capire che è meglio attendere l’arrivo del padrone di casa, ovvero, il
padrone del cane. Sul fatto che il mastino napoletano sia pesante,
d’altronde, non v’è alcun dubbio. Sul tipo morfologico brachimorfo,
invece, continuano a persistere degli altri convincimenti. Tali filosofie
sono giustificate dagli elementi che forniscono il risultato aritmetico
degli indici biometrici. Gli indici di calcolo, usati in cinognostica per
determinare il tipo morfologico, in questo caso, quello della costruzione
corporea, difatti, aritmeticamente, espongono un risultato che non rientra
nel brachimorfismo. L’indice di riferimento del tipo corporale calcolato
in cinognostica è quello “tronco-toracico” (I.C. [Indice Corporale] =
lunghezza del tronco x 100 : circonferenza toracica). Tale indice, in
effetti, desume un valore affatto classificabile nel tipo brachimorfo. La
classificazione del mastino napoletano, secondo questo indice, infatti,
fornisce un valore che, addirittura, rientra nel dolicomorfismo. La
richiesta del tipo brachimorfo, da parte dello standard, perciò, è
stravolta dalla legge matematica, che scaturisce da questi dettami
scientifici (?). Il tipo dolicomorfo, tuttavia, non corrisponde, nel modo più
evidente, al modello anatomico cui appartiene il mastino napoletano. La
razza partenopea non assomiglia in nulla al modello del levriero,
appartenente al dolicomorfismo, quale suo prototipo di riferimento. Il
levriero, anzi, si presenta di tipo opposto a quello rappresentato da un
molosso vero e proprio, come quello partenopeo. Gli effetti anatomici, pur
talmente evidenti nel contrasto al dolicomorfismo, nemmeno fanno propendere
al mesomorfismo, perché l’aspetto generale del nostro molosso non
s’avvicina neanche alla costruzione del pointer e del boxer, che sono i
prototipi di tale tipologia intermedia. Errato, pertanto, risulta
rappresentare il mastino napoletano come un pesante mesomorfo, dato che
neppure l’indice corporale lo fa rientrare in questo tipo. Il mastino
napoletano si classifica automaticamente come brachimorfo, in quanto proprio
l’aspetto generale non consente altre interpretazioni. Questo comporta
che, almeno in questa razza, l’indice zoometrico usato non risponde alla
tipologia cui appartiene un molosso come il nostro. La matematica della
zoometria così applicata, d’altro canto, risulta falsata (bisogna dire,
in modo incredibile) dal particolare rapporto che intercorre tra la
lunghezza del tronco e la massa corporea. Non a caso, l’indice zoognostico
tronco-torace, preso a misurazione in cinognostica come “indice
corporale”, fornisce la misura dell’intensità della massa corporea
rispetto alla lunghezza del tronco. Il problema di questo indice, però, sta
proprio nella constatazione che lo sviluppo toracico è ridimensionato dalla
lunghezza del tronco. Tale indice, infatti, s’avvicina al brachimorfismo
se al torace ampio corrisponde un tronco breve. Soltanto in presenza di un
tronco quadrato, quindi, il torace appartenente al mastino napoletano,
tramite l’indice in questione, darebbe il brachimorfismo. Il tronco
rettangolare della nostra razza, pertanto, modifica l’effettivo tipo
brachimorfo dell’indice in questione, dato dal torace. L’individuazione
del brachimorfismo, perciò, deve far uso di un insieme d’indici
zoometrici (non ancora applicati in cinometria) riveduti e corretti, al fine
d’adattarli al contesto unico rappresentato dal molosso nel suo prototipo
equilibrato, intermedio e razionale (non estremo come il bulldog), non
ancora studiato con attenzione ai particolari. L’applicazione in
cinognostica dell’indice dello sviluppo delle costole (I.T. [Indice
Toracico] = larghezza toracica x 100 : altezza toracica) dovrebbe consentire
una migliore identificazione della tipologia corporea. L’indice toracico,
difatti, esprime lo sviluppo del torace rispetto al tipo morfologico e
costituzionale. In base a questo indice, quanto maggiore è il diametro
trasversale del torace, più rientra nel brachimorfismo. La rilevazione di
altri due indici può determinare l’appartenenza del mastino napoletano al
tipo brachimorfo. L’indice tra l’arto e il torace (I.D.T. [Indice
Dattilo Toracico] = circonferenza dell’avambraccio x 100 : circonferenza
toracica) identifica bene l’aspetto generale, in quanto esprime il grado
di sviluppo dello scheletro, soprattutto, delle ossa lunghe, rispetto allo
sviluppo del tronco. Questo calcolo fornisce i centimetri di circonferenza
toracica che corrispondono ad un centimetro di circonferenza
dell’avambraccio, per cui quanto maggiore è tale rapporto, tanto più
maggiore è l’aderenza al brachimorfismo e l’aspetto generale di pesante
brachimorfo. In fatto di sviluppo osseo dell’arto e di sviluppo della
gabbia toracica, il mastino napoletano non pone dubbi sulla propria
appartenenza al tipo brachimorfo. L’altro indice utile è quello della
dimensione corporea (I.d.C. [Indice di Compattezza] = peso vivo : statura
[altezza al garrese]). Non v’è dubbio che questo rapporto, nel mastino
napoletano, è alquanto elevato, per cui l’appartenenza al brachimorfismo,
ancora una volta, è accertata. Il tipo brachimorfo, pertanto, non viene
alterato dalla figura rettangolare della costruzione corporea, determinata
dalla lunghezza del tronco superiore all’altezza al garrese. Il tronco più
lungo che alto, infatti, non ridimensiona effettivamente l’aspetto
generale di pesante brachimorfo. La pesante tipologia brachimorfa messa in
dubbio dall’indice corporale, ridimensionato dal rapporto limitativo tra
lunghezza del tronco e perimetro del torace, fino a definirla nella
tipologia opposta, pertanto, trova conferma nell’aspetto generale, pur con
il tronco allungato. Quello che conta nel determinare il tipo brachimorfo
del mastino napoletano è la grande mole, intesa nel senso più immediato
del termine, dove il rapporto tra statura (altezza al garrese), peso e
volumi, offre una struttura fisica dal ragguardevole aspetto
tridimensionale. Il tronco lungo, quindi, va rapportato alla massa corporea
totale, allo scopo di precisare meglio la tipologia del mastino napoletano.
Proporzioni importanti L’altezza al garrese - da 65 a 75 cm nei maschi e
da 60 a 68 cm nelle femmine - rende una vasta gamma di taglie e conseguenti
dimensioni strutturali, cui può andar soggetta la razza. Il mastino
napoletano diventa uno strumento deterrente per la guardia se l’aspetto
imponente, che è proprio determinato dall’altezza al garrese, dispone di
un supporto fisico adeguato. L’altezza elevata, infatti, agevola il lavoro
di guardia, come deterrente, quando le dimensioni corporee riempiono i
volumi dello spazio tridimensionale consono alle proporzioni della mole
ottimale, che una data taglia può ottenere nel mastino napoletano.
L’altezza più elevata consentita, disponendo di una mole proporzionata,
pertanto, presenta l’aspetto volumetrico maggiormente deterrente, rispetto
a delle altezze inferiori, pur proporzionate che siano. L’aspetto
tridimensionale, che deriva dalla massima altezza al garrese e dai volumi
corrispondenti, giova pure alla funzione di cane da presa, grazie alla
potenza strutturale, in grado di fuoriuscire da un contesto anatomico così
abbondante. L’apporto volumetrico della taglia elevata offre i diametri
che servono ad imprimere la maggior potenza mascellare e la maggior forza
d’urto. La mole imponente, inoltre, favorisce l’adeguato contrappeso da
opporre alla forza antagonista. Le migliori caratteristiche funzionali
complessive, derivate dall’apporto dell’altezza al garrese, tuttavia,
dipendono dall’equilibrio anatomico, scaturito dall’imponenza fisica
dotata dello sviluppo costituzionale, dove nulla va a discapito del lavoro
di cane da guardia deterrente, anche agevolando ulteriormente la funzione di
cane da presa. La lunghezza del tronco superiore all’altezza al garrese
non diminuisce l’aspetto imponente. Il rapporto maggiore del 10 %,
rispetto alla statura non toglie valore ai volumi, nemmeno alle proporzioni,
se i diametri trasversali mantengono l’equilibrio. Una lunghezza corporea
superiore al 10 %, arrivando ad una lunghezza anche del 15-20 %, offre la
possibilità di un aspetto generale ancora più imponente, qualora
corrisponda una mole adeguata. Il concetto di pesante brachimorfo è
favorito dal tronco così lungo, in quanto aumenta l’apporto volumetrico,
per mantenere intatto l’equilibrio anatomico. La maggior lunghezza del
tronco, pertanto, consente l’aumento della mole, dato che i maggiori
volumi contemplano un più elevato rapporto tra l’altezza e il peso.
L’aspetto tridimensionale acquista maggior spazio, per cui la funzione di
deterrente ne giova, così come aumenta la forza d’urto e l’effetto da
contrappeso antagonista. Il tronco lungo, d’altronde, non modifica il tipo
morfologico e costituzionale brachimorfo, che resta tale grazie ai maggiori
volumi che ne derivano, perché proporzionatamente supportati dai diametri
traversali. La lunghezza della testa assume la massima importanza grazie
alle proporzioni necessariamente precise entro l’aspetto generale. Una
testa lunga i 3/10 dell’altezza al garrese, però, non adempie alle
migliori condizioni di tipicità e, conseguentemente, pure a quelle di
funzionalità. La testa di 3/10, pur presentando le proprie sottoregioni
proporzionate fra loro, infatti, non soddisfa i volumi craniometrici utili
alla funzione di cane da guardia deterrente e di cane da presa. Una testa
così corta si presenta piccola, per cui non offre le dimensioni che fungono
da deterrente, secondo il primo impatto visivo raccolto dall’osservatore.
La testa, difatti, è la prima regione fisica a presentare le credenziali
dell’intera struttura architettonica. La figura strutturale del mastino
napoletano, per questi motivi, deve alla testa quell’aspetto imponente che
incute l’utile timore reverenziale. Una testa siffatta (3/10), inoltre,
diminuisce le potenzialità dell’azione di presa. Il morso è meno potente
e la forza d’urto è meno pesante, fin dall’inizio dell’impatto
impresso dalla testa durante l’approccio mascellare della presa. Il
rapporto tra il cranio e il muso di 2 a 1 confeziona una testa
complessivamente potente, grazie ai fattori anatomici che intervengono sulle
proporzioni volumetriche. Le dimensioni della testa giovano di codesto
rapporto, dove il muso lungo la metà della lunghezza del cranio conferisce
più potenza visiva all’aspetto imponente, data dalla concentrazione
longitudinale di una delle due sottoregioni cefaliche. La lunghezza totale
della testa, suddivisa secondo tali proporzioni, riceve dal muso
l’esaltazione del cranio, per cui l’effetto visivo, risultando maggiore,
diventa utile quando il mastino napoletano deve compiere l’azione
deterrente durante la guardia. Il concetto di testa deterrente, infatti, per
via del muso così più corto e proporzionato, espone un cranio dal volume
elevato, poiché la lunghezza della sottoregione cranica occupa una notevole
percentuale della lunghezza cefalica totale. Le proporzioni diametrali,
infatti, favoriscono il cranio dal volume doppio, rispetto al muso. La
sottoregione facciale siffatta determina la concentrazione massiccia del
substrato scheletrico, necessario al morso potente durante la breve azione
di presa, che il mastino napoletano impone, secondo le tipiche
caratteristiche strutturali. La potenza di presa, infine, è sostenuta dal
supporto craniale, appunto, dotato del volume che garantisce dei muscoli
masticatori adeguatamente proporzionati a tale pressante condizione
funzionale.
Comportamento e carattere
La forza e la lealtà caratteriale sono delle componenti indispensabili per
effettuare un buon lavoro di guardia. Il carattere forte consente
l’affronto delle situazioni di pericolo. Il carattere leale fa intervenire
il cane soltanto quando è necessario. Si tratta delle capacità mentali
discernenti le situazioni spiacevoli da quelle piacevoli. Capacità mentali
che non lo spingono ad abusare della propria forza fisica, talmente deve
essere conscio di possederla. Il quadro mentale del mastino napoletano
consente l’intervento tramite l’aggressività e la mordacità, regolate
secondo il grado di forza e lealtà caratteriale posseduta. L’aggressività
e la mordacità, infatti, non devono manifestarsi senza un giustificato
motivo, che il cane riesce a capire se, appunto, dispone di un carattere
forte e leale. La componente aggressiva del profilo caratteriale del mastino
napoletano, comunque, deve essere presente in misura da risultare diffidente
verso gli estranei, ma quelli che si comportano secondo degli atteggiamenti
pericolosi. L’aggressività, tuttavia, fuoriesce dal cane solo al momento
opportuno. Nel lavoro di guardia, l’intrusione nel territorio scatena una
giustificata aggressività. Fuori dal proprio territorio, il mastino
napoletano deve reagire solo se minacciato, ma con un’aggressività
controllabile dal padrone del cane, attraverso l’obbedienza prestata anche
entro una situazione di pericolo. L’aggressività, conseguentemente, fa
scattare la mordacità, per cui un cane controllabile dal proprio padrone
morde quando richiesto, oppure se è necessario per fermare l’intruso
territoriale, decidendo di mordere sulla base della componente leale del
proprio carattere, quando il cane si trova da solo durante la guardia.
L’aggressività e la mordacità sono delle componenti caratteriali insite
nel cane da presa. Un cane da presa specializzato nella guardia le usa
raramente, non certo quotidianamente. Tali componenti caratteriali, quindi,
rappresentano il valore aggiunto al carattere forte e leale. Nella difesa
della proprietà e delle persone (familiari), l’aggressività e la
mordacità devono manifestare un comportamento equilibrato, che evidenzia
pure l’intelligenza. L’intelligente comportamento esibito durante la
guardia lo rende vigile, nobile e maestoso. La vigilanza lo porta ad essere
attento; mentre, la nobiltà e la maestosità, esibite attraverso
l’atteggiamento, evidenziano la sicurezza caratteriale del mastino
napoletano, dettata proprio dalla forza e dalla lealtà. Testa
L’appartenenza brachicefala del mastino napoletano presenta la testa
apparentemente corta, pur se corta non è di certo e non deve esserlo. La
funzionalità del cane da presa, infatti, trova efficacia dalla testa più
lunga possibile (secondo il rapporto con l’altezza al garrese), tuttavia,
senza perdere la potenza cefalica data da una larghezza e da un volume
predominanti sulla lunghezza. L’effetto ottico della testa corta, quindi,
dipende dal contributo dato dalla larghezza, che è l’elemento
craniometrico determinante la brachicefalia, nonché, al contempo, basilare
per ottenere una spiccata volumetria. La testa brachicefala del mastino
napoletano, pertanto, evidenzia una larghezza cefalica notevolmente
sviluppata ed un enorme volume. Una testa brachicefala così composta appare
morfologicamente pesante. La determinazione della tipologia relativa alla
testa avviene con un indice (I.C.T. [Indice Cefalico Totale] = larghezza
della testa x 100 : lunghezza della testa), in base al quale
l’appartenenza brachicefala del mastino napoletano è sicuramente
accertata. La sostanza della brachicefalia corrisponde alla larghezza
cefalica superiore alla metà della lunghezza totale della testa. Stante il
rapporto longitudinale tra il muso e il cranio decisamente a favore del
secondo, con la larghezza cefalica determinata dalla larghezza cranica
uguale alla sua lunghezza, diventa notevole il superamento del limite ad
oggetto della brachicefalia. Succede che il cranio largo quanto lungo
contribuisce alla testa brachicefala perché supportato dal muso corto. La
cortezza del muso, perciò, è determinante quanto la larghezza cefalica. La
testa brachicefala del mastino napoletano, tuttavia, al di là del concetto
craniometrico, si presenta tale per via della voluminosa struttura
morfologica, data da quel substrato anatomico (scheletrico e muscolare) e da
quei tratti somatici tegumentali (rughe e pliche), che lo contraddistinguono
sotto il profilo della tipicità. La brachicefalia, inoltre, agevola
l’aspetto imponente che il nostro molosso presenta durante la mansione di
guardiano, trovando nella testa di questa tipologia l’elemento primario
della sua prestazione funzionale come deterrente. La testa brachicefala,
infine, è massiccia, perché la voluminosità assicura il tipico e
funzionale substrato scheletrico pesante. Il cranio largo agli zigomi
confeziona la quadratura della regione e garantisce la brachicefalia. La
lunghezza totale del 30 % dell’altezza al garrese non modifica il contesto
craniometrico brachicefalo. Una lunghezza superiore, però, offre quella
brachicefalia maggiorata, che è sinonimo di una migliore efficacia
funzionale, sia come aspetto deterrente, sia come supporto alla presa, nonché,
come valore aggiunto – strutturale e volumetrico - alla tipicità. La
pelle abbondante, attraverso le conseguenti rughe e pliche, disegna la
tipicità; mentre, in termini funzionali, acquista due valori
differenzianti, a seconda della mansione considerata. La tipica plica, ben
marcata, che parte dall’angolo palpebrale esterno e discende sino
all’angolo labiale (commessura), offre l’apporto tegumentale
maggiormente caratterizzante il mastino napoletano. L’abbondanza della
pelle negli altri punti della testa, quando oltrepassa l’apporto
tegumentale tipico, per assumere un aspetto ipertipico, aumentando e
marcando maggiormente le altre pliche e le rughe, presenta un aspetto
deterrente assai più convincente. A sfavore dell’intervento in presa, però,
ostacola la prestazione del morso, dato che è il muso a riportare
l’aumento tegumentale più marcato. L’apertura della bocca è poco
visibile e la chiusura mandibolare rischia di trattenere il labbro superiore
tra i denti. Sempre a danno funzionale, la pelle della testa troppo
abbondante è spia di un substrato scheletrico carente. La potenza della
presa ne risente, dato che i muscoli masticatori, conseguentemente, sono
ridotti. Il parallelismo degli assi longitudinali superiori cranio-facciali
confeziona la tipicità tramite l’assetto strutturale complessivo della
testa. Nel contesto cefalico del mastino napoletano segue la piattezza
cranica e l’orizzontalità della canna nasale. Questi elementi fanno parte
del tipo ed offrono la basilare indicazione della struttura funzionale, sia
del cranio, sia del muso. Il parallelismo craniale evidenzia la posizione
dell’occipite e della fronte sullo stesso livello, in modo da determinare
una faccia superiore del cranio che funge da piattaforma necessaria
all’angolosità cubica dell’intera regione cranica. Il cranio piatto
superiormente, infatti, configura una discesa ossea laterale più angolosa
possibile e non arrotondata. Ciò, favorisce l’altrettanta piattezza delle
pareti laterali del cranio, sinonimo della tipica forma (superiormente)
quadrata e (totalmente) cubica. La funzionalità, come cane da presa, in
tale contesto, trova dei muscoli masticatori secondo un consequenziale
sviluppo contenuto, che cagiona una potenza masticatoria sulle necessità
non eccessive, a discapito dell’aspetto deterrente. Un cranio piatto,
quadrato e cubico, difatti, assume un maggior volume, che si presenta sotto
un aspetto imponente funzionalmente efficace nella maestosità della testa,
quale regione morfologica per prima determinante l’effetto deterrente,
sottoposto all’osservatore da spaventare. Il parallelismo facciale
asseconda la struttura complessiva della testa mediante l’equilibrio
anatomico. I muscoli masticatori, infatti, agiscono sul substrato osseo
mascellare con una disposizione lineare, tanto semplice quanto efficace. Il
muso parallelo, poi, assicura la lunghezza mascellare richiesta, che deve
presentarsi tale per offrire la più grande capacità d’apertura buccale
per la presa. L’asse parallelo facciale, inoltre, favorendo la lunghezza
mascellare ideale, offre un muso dimensionato secondo una configurazione
geometrica che, dovendo essere d’eguale sviluppo tridimensionale,
determina la forma cubica anche di questa regione. La cubatura del muso,
unita a quella del cranio, aumenta l’effetto deterrente di una testa senza
imitazioni nel vasto panorama delle razze canine. La testa del mastino
napoletano, difatti, assume il più elevato livello funzionale come effetto
deterrente. Regione cranica Il cranio largo è anatomicamente tipico e
funzionale. La larghezza cranica così costruita offre lo spazio
craniometrico necessario, affinché il substrato anatomico trasformi in
piattaforma la faccia superiore della regione. La parte posteriore
(occipitale) del cranio piatta, infatti, dipende dalla sua larghezza,
predisposta a conformare una figura geometrica (cubica) più angolosa
possibile, nel punto d’incontro tra la piattaforma superiore e le pareti
laterali. La configurazione particolarmente piatta fra le orecchie e
leggermente convessa nella parte anteriore (fronte), non cambia la
sostanziale quadratura della piattaforma superiore del cranio. La leggera
convessità anteriore è favorita dalla concentrazione delle rughe frontali
e dalle pliche sopraorbitali che proseguono lateralmente, anche perché la
piattezza della parte posteriore del cranio (fra le orecchie) differenzia la
sottoregione occipitale da quella frontale. Il cranio piatto fra le orecchie
è determinato dallo sviluppo verso i lati (perciò, in larghezza) dei
muscoli ivi posizionati, nella loro inserzione occipitale. Un siffatto
sviluppo della muscolatura superiore del cranio non è dovuto solo alla
larghezza cranica, ma pure all’apofisi occipitale appena accennata, che
toglie lo spazio verso l’alto. Il cranio piatto superiormente, inoltre, è
il compromesso anatomico che assicura la funzionalità durante la presa e il
movimento. L’apofisi occipitale, essendo il punto d’inserzione dei
muscoli grandi complessi della testa e dei muscoli brachiocefalici, difatti,
non potendo offrire la possibilità di uno sviluppo muscolare verticale, è
favorita dalla piattezza cranica nel consentirne lo sviluppo orizzontale. Lo
sviluppo di tali muscoli in prossimità dell’inserzione occipitale agevola
la loro azione. I muscoli grandi complessi della regione cranica sono
favoriti nell’azione di irrobustimento della testa sul collo, quale
ausilio durante la presa; mentre, i muscoli brachiocefalici sono favoriti
nell’azione di spostamento del braccio (omero), durante l’allungo
dell’arto anteriore. I muscoli brachiocefalici, inoltre, quando l’atto
della presa avviene facendo perno sugli arti anteriori, aiutano la flessione
della testa, utile a rinforzare la trattenuta mascellare e ad imprimere
ulteriore potenza al morso. La complessità della muscolatura craniale del
mastino napoletano, infine, trova conferma nei muscoli piatti alle arcate
zigomatiche. La muscolatura zigomatica non sviluppata verso l’esterno
conferisce la piattezza delle pareti laterali del cranio, quale elemento
indispensabile alla tipicità. Un siffatto sviluppo zigomatico dei muscoli
masticatori, però, trova verso l’alto ciò che perde nello sviluppo
laterale. Lo sviluppo muscolare masticatorio in verticale confeziona
ulteriormente la piattaforma laterale della regione cranica, donando la
tipica (totale) forma piatta al cubo cefalico cerebrale. Il muscolo
masticatorio temporale, per di più, sviluppandosi verso l’alto, nel suo
inserimento frontale, determina la leggera convessità della parte anteriore
(superiore) del cranio. Questa posizione di sviluppo verticale del muscolo
temporale sfrutta lo spazio nella fronte per recuperare la forza venuta meno
dallo sviluppo laterale, per cui supplisce anche alla minore incidenza
dell’altro muscolo masticatorio (massetere). La funzionalità della
potenza masticatoria, conservata in tal modo, pertanto, si sposa con la
tipica forma cranica. Le arcate zigomatiche molto pronunciate, per via della
muscolatura masticatoria non prominente verso l’esterno, si presentano
come il punto anatomico più largo del cranio. Il punto craniometrico dove
si misura la larghezza cranica, perciò, rappresenta il limite in cui la
parete laterale del cranio consente lo sviluppo muscolare del massetere e
del temporale. La piattaforma delle facce esterne del cranio, quindi, trova
nelle arcate zigomatiche il substrato osseo che si presta da confine anche
per la dimensione laterale superiore (sottoregioni temporale e parietale)
della cubatura cranica. L’arcata zigomatica protesa molto all’esterno è
indispensabile alla funzione di cane da presa, in quanto, oltre ad allargare
la struttura ossea del cranio, consente l’alloggio interno dei muscoli
masticatori non sviluppati esternamente, sopperendo alla loro mancata
prominenza. Il compromesso tra le arcate zigomatiche molto pronunciate e i
muscoli piatti ivi inseriti è il connubio per conferire la tipicità,
comunque, utile nell’aspetto funzionale di cane da guardia deterrente, che
deve prevalere rispetto allo sviluppo muscolare masticatorio, utile alla
funzione di cane da presa. La larghezza zigomatica superiore alla metà
della lunghezza totale della testa trova nelle proprie arcate molto
pronunciate l’elemento basilare della tipicità brachicefala. Il diametro
zigomatico favorito dalle arcate così conformate, infatti, assicura una
larghezza elevata, dato che le arcate molto pronunciate si presentano solo
nei crani molto larghi, appunto, tipici delle razze brachicefale. Gli altri
due fattori cranici, peraltro, strettamente interdipendenti, completano la
morfologia del cranio, indispensabile per la forma della fronte. I seni
frontali molto sviluppati e la sutura metopica marcata, difatti,
contribuiscono a conformare la leggera convessità della parte anteriore
(superiore) del cranio. I seni (bozze) frontali, soprattutto, conferiscono
una fondamentale tipicità, per via dell’espressione (che ne risente) e di
una serie di condizioni funzionali correlate. Il mastino napoletano,
avendoli molto sviluppati, quindi, alti, larghi e prominenti, per
l’appunto, acquista determinate caratteristiche. Le bozze alte e
prominenti (verso l’avanti) formano la depressione seni-nasale, che
disegna lo stop visto di profilo. Lo stop rilevato in tal modo si presenta
decisamente marcato e garantisce il parallelismo dell’asse craniale. Allo
stesso modo, collabora alla piattaforma superiore del cranio. Le bozze alte,
inoltre, mantengono una certa distanza tra gli assi longitudinali superiori
cranio-facciali paralleli. I seni frontali sviluppati longitudinalmente (non
sporgenti, però, oltre la verticalità della depressione seninasale ad
angolo retto), oltre a proteggere l’occhio, offrono lo spazio alle pliche
sopraorbitali, che disegnano esternamente la leggera convessità della parte
anteriore del cranio. La prominenza delle bozze, infine, fa sì che siano
verticalmente ad angolo retto e non obliquamente ad angolo ottuso, che
altererebbe l’espressione, la tipicità e la funzionalità. Le bozze
sviluppate trasversalmente accompagnano la larghezza del cranio,
contribuendo a mantenere la fronte larga. La parte anteriore del cranio
risulta leggermente convessa proprio perché i seni frontali larghi non
consentono alla fronte di curvarsi ulteriormente. La larghezza delle bozze
forma il lato anteriore dritto del cranio, creandone la quadratura e il
tratto terminale frontale della piattaforma superiore. Le bozze larghe,
infine, aiutano la conformazione della piattaforma delle pareti laterali del
cranio, favorendo un’angolosità simile a quella presso la zona delle
orecchie. I seni frontali molto sviluppati sono un elemento indispensabile
nella funzione di cane da guardia, perché servono a percepire
teleolfattivamente la presenza estranea portata dall’aria. La sutura
metopica marcata traccia un solco mediano frontale ben evidente, che
determina – nella depressione naso-frontale – uno stop decisamente meno
accennato, rispetto alla depressione seni-nasale. Vista di lato, pertanto,
non è visibile; mentre, vista di fronte, divide marcatamente i seni
frontali. La linea anteriore della fronte, perciò, risale obliquamente, con
una lieve pendenza, quindi, non eccessiva quanto quella delle bozze. Il
solco medio-frontale contribuisce a mantenere il cranio largo anche
anteriormente, favorendone la quadratura. Quale elemento di tipicità e di
funzionalità, trova validità se non raggiunge la parte posteriore del
cranio, togliendone la piattezza. Un solco spinto posteriormente accentua le
caratteristiche verso un’ipertipicità bulldoccoide, che non agevola la
potenza della presa, in quanto allarga ed accorcia troppo la testa, oltre a
danneggiare l’espressione. Regione facciale La faccia annovera una serie
di peculiarità che assumono un’importanza meritevole di una trattazione
sottoregionale. Ogni singolo elemento conformante questa regione, perciò,
consente delle precise considerazioni a sé stanti. La regione facciale,
attraverso le proprie sottoregioni, assolve alla funzione di cane da presa
come strumento principale, tuttavia, senza venir meno il contributo come
strumento altrettanto importante nell’effetto deterrente, trasmesso dal
primo impatto visivo. Tartufo La posizione allineata al contorno del muso,
sia al profilo superiore, sia al profilo anteriore, implica delle precise
condizioni tipiche e funzionali. Il tartufo sulla linea orizzontale della
canna nasale mantiene perfetto il parallelismo dell’asse facciale. La
linearità del segmento nasale rappresentato dal tartufo, pertanto, fa sì
che il profilo superiore del muso è completamente rettilineo in tutta la
sua lunghezza. Il tartufo sulla linea verticale del muso è la conseguenza
della posizione orizzontale superiore. La linearità perpendicolare
garantisce la perfetta condizione della faccia anteriore del muso. La forma
del muso così impostata, attraverso un’angolazione retta tra il profilo
superiore (orizzontale) e quello anteriore (verticale), determina un
substrato osseo della regione facciale perfettamente dritto, per cui il muso
si presenta tipicamente squadrato. Il tartufo così posizionato, inoltre,
consente l’ottimale flusso respiratorio, secondo l’inspirazione e
l’espirazione sintonizzata alla velocità dell’azione cardio-polmonare.
La voluminosità del tartufo è indispensabile per avere le narici grandi e
ben aperte. Il tartufo voluminoso, infatti, offre lo spazio adeguato
all’apertura maggiormente funzionale delle narici. La respirazione potrà
avvenire senza difficoltà, grazie ad un’apertura terminale delle vie
respiratorie capace di far passare il maggior quantitativo d’aria
possibile. Il limite massimo per l’apertura delle narici è dato dal
volume del tartufo in armonia con la faccia anteriore del muso. Le ali
nasali, in tal modo, non si presentano troppo staccate ed indipendenti dal
contesto del tartufo, per cui non ostacolano fastidiosamente il normale
flusso respiratorio. Il tartufo armoniosamente voluminoso, inoltre, non si
presenta “negroide”, ovvero, molto più largo che alto. Una forma
“negroide” è sproporzionata, per cui modifica l’aspetto della
piattaforma anteriore del muso, alterando lo spazio aperto delle narici e
non acconsentendo una respirazione del tutto ottimale. Il volume confeziona
la dimensione del tartufo nel contesto della regione facciale. Lo spazio
occupato anteriormente (nella canna nasale) e superiormente (nella
piattaforma verticale del muso) vede la superficie superiore del tartufo
ampia quanto la sua superficie anteriore. La pigmentazione è il segno della
salute fisiologica. Le migliori condizioni di salute derivano dalla massima
pigmentazione possibile. Il pigmento, tuttavia, è in rapporto al resto
della pigmentazione generale, dove il colore del mantello è predominante.
Il pigmento del pelo, pertanto, condiziona la pigmentazione di tutte le
mucose, tartufo compreso. La pigmentazione del tartufo nel mastino
napoletano, perciò, risponde alle migliori condizioni offerte dai vari
colori del mantello, fermo restando che, comunque, deve presentarsi quanto
più scuro possibile, rispetto al manto stesso. Il miglior pigmento
possibile si manifesta pienamente relazionato nel mastino napoletano dal
mantello di colore nero. La pigmentazione del tartufo con il manto nero,
infatti, è altrettanto nera, rappresentando la condizione ottimale in senso
generale. Nel mastino napoletano dal mantello di colore mogano, il tartufo
si presenta marrone, rappresentando la pigmentazione più facilmente
sintonizzata ad un pelo così molto chiaro. Nei mantelli di tutti gli altri
colori, il tartufo deve essere scuro, rappresentando, a seconda del colore
del pelo, la massima pigmentazione possibile per ciascun manto. Muso La
dimensione molto larga, profonda (alta) e dalla lunghezza pari ad 1/3 della
lunghezza totale della testa, lo rende notevolmente pieno. La larghezza e la
profondità, ovviamente, devono proporzionarsi alla lunghezza, per cui la
tridimensionalità della regione facciale acquisisce una configurazione
pressoché cubica, confermata dalla quadratura data dalle facce laterali
parallele. La regione facciale, quindi, si presenta come un cubo dal volume
inferiore pressappoco della metà rispetto al cranio. La lunghezza del muso,
corrispondente a metà lunghezza del cranio, prestandosi come punto di
confronto per la misura degli altri due diametri facciali, evidenzia delle
proporzioni che acquistano (molto) in profondità lo spazio (poco) perso in
larghezza. La larghezza, infatti, non raggiunge (mancando non tanto) la
misura della lunghezza; la profondità (altezza), invece, la supera
(abbondantemente). La cubatura del muso, quindi, pur equamente configurata,
non ha la proporzione della precisa cubatura geometrica del cranio. I lati
della figura cubica determinata dal muso, infatti, non sono uguali. I lati
verticali sono superiori a quelli longitudinali e, conseguentemente,
superano ancor di più quelli trasversali. Le pareti laterali della regione
facciale, perciò, hanno una superficie maggiore rispetto alla superficie
della parete superiore (ovviamente, anche dell’identica parete inferiore),
nonché della parete anteriore. Anche la parete anteriore, sempre per via
dei lati verticali, oltrepassa quella superiore (ed inferiore). Le pareti
che contornano il muso, pertanto, sono decrescenti in superficie, da quelle
laterali a quella anteriore ed, infine, a quella superiore (quanto quella
inferiore). Il cubo facciale rettangolare, conseguentemente, è posizionato
in verticale. La larghezza, tuttavia, più si avvicina alla lunghezza, più
guadagna in tipicità e funzionalità. La profondità, d’altro canto,
superando la lunghezza, ha la possibilità di raggiungere una misura
ragguardevole, altrettanto tipica e funzionale, finché resta proporzionata.
La tipicità del muso, comunque, si manifesta a seconda se visto di lato, di
fronte o dall’alto. Visto di lato, il muso si presenta profondo e corto,
ovvero molto più profondo che lungo. Visto di fronte, si presenta alto e
leggermente stretto, ovvero molto più alto che largo. Visto dall’alto, si
presenta corto e leggermente stretto, ovvero un po’ più lungo che largo.
La volumetria della regione facciale, nel contesto tipico tridimensionale,
trova efficacia nella duplice funzione di cane da guardia deterrente e di
cane da presa. L’effetto deterrente trae vantaggio visivo dal maggior
volume possibile anteposto al cranio, per cui la larghezza quasi uguale alla
lunghezza, nonché l’enorme profondità e le facce laterali parallele,
avvantaggiano la funzionalità, presentando, visto di fronte, una faccia
anteriore del muso dalla piattaforma molto vasta. Una siffatta conformazione
aumenta l’effetto deterrente al momento che il mastino napoletano apre la
bocca ed abbaia. L’apertura delle fauci con una struttura morfologica e un
substrato anatomico del genere, difatti, esprime un ancor più abbondante
volume facciale, che avvicinandosi di più al volume del cranio, confeziona
un blocco cefalico dalla voluminosità impressionante per una dimensione
craniometrica canina. In occasione dell’apertura della bocca, ovviamente,
il muso assume una maggiore altezza, determinando una figura geometrica dal
rettangolo verticale più allungato. Una condizione strutturale così
conformata, inoltre, offre delle potenzialità di presa altrettanto
funzionali. La capacità del morso è sostenuta tanto dall’apertura
buccale quanto dalla costruzione mascellare. Un volume del muso di tale
dimensione apre uno spazio mascellare che consente alla bocca di coprire la
più ampia superficie di presa. L’ampiezza della presa è dettata dalla
capacità geometrica della cubatura facciale. Ragion per cui si presta
meglio che la larghezza tenda a parificarsi alla lunghezza, in modo da
squadrare più possibilmente il muso. La profondità, inoltre, è meglio che
si mantenga rapportata sempre e solo alla lunghezza, senza conseguire
l’eventuale maggior larghezza, affinché il guadagno di copertura
mascellare ottenuto nel diametro trasversale non modifichi la funzionale
altezza del muso. L’altezza facciale che aumenta nel caso di un muso più
largo possibile, infatti, danneggia la strutturazione generale della
regione. Il motivo per cui la larghezza del muso non arriva mai a
parificarsi completamente alla lunghezza consiste proprio nell’equilibrio
diametrale, che risulta maggiormente funzionale quando i rapporti non
oltrepassano la configurazione craniometrica predisposta a conferire la più
efficace potenzialità di presa, relativa al mastino napoletano. La
funzionalità della presa è completata dalla potenza mascellare, che
imprime al morso una notevole pressione, dovuta alla compatta
tridimensionalità della regione facciale. Il mastino napoletano non ha
bisogno della più ampia superficie di presa possibile, non dovendo
trattenere il morso a lungo, in quanto deve terminarlo in breve tempo,
grazie alla forza mascellare di cui dispone. Basta, quindi, che la copertura
buccale sia la più ampia, in ragione alla massima potenza del morso. La
forza mascellare, appunto, deriva dal muso corto, largo e profondo. La
potenza acquisita dal diametro longitudinale corto trova efficacia dagli
altri due diametri facciali molto sviluppati. La larghezza, oltre a far
guadagnare l’ampiezza della presa persa in lunghezza, irrobustisce le
mascelle, perché le adegua alla larghezza del cranio e, soprattutto,
favorisce lo sviluppo in altezza del substrato osseo del muso. La larghezza
mascellare, infatti, richiede una profondità ossea notevole, affinché il
muso sia cubico. Questo comporta che la cubatura facciale usufruisca di una
mascella superiore molto alta. La chiusura mascellare, ovviamente, per via
di una mandibola dallo spessore adeguato alla mascella superiore, nonché
dalla larghezza che usufruisce del potente ausilio del cranio molto largo,
imprime la massima potenza. L’effetto mandibolare del martello trova il
corrispondente effetto dell’incudine della mascella superiore molto alta,
attutendo e trattenendo entro la bocca tutta la potenza impressa. Non vi è,
così, dispersione della forza prodotta dal morso, dato che non trova spazio
facciale per sfuggire. La dimensione del muso in lunghezza e larghezza,
difatti, non consente alla forza mandibolare di espandersi troppo,
considerando che la profondità mascellare compie tutta la forza
d’impatto, proprio perché altrettanto potente in un contesto facciale non
dispersivo. Labbra L’abbondanza della pelle su tutto il corpo apporta una
copertura tegumentale abbondante pure sul muso. Una tale abbondanza cutanea,
con lo spessore carnoso e la conseguente pesantezza tessutale delle labbra,
aumenta la tridimensionalità della regione facciale, per di più,
disegnando un caratteristico aspetto esteriore. Le mascelle molto larghe ed
alte, quindi, dalla struttura possente, per coprirle adeguatamente, in
sintonia al substrato scheletrico, riportano delle labbra spesse, affinché
confezionino un muso dalla dimensione ben proporzionata a quella voluminosa
del cranio. Il tessuto labiale dallo spessore consistente, ovviamente, è
subordinato a quello del resto del corpo. La pelle abbondante in ogni
regione corporea, difatti, è spessa ovunque, per cui non può essere di
meno neppure nella regione facciale. Le labbra spesse si presentano pesanti,
conferendo imponenza al muso, che tanto giova al funzionale effetto
deterrente. L’abbondanza e lo spessore delle labbra sul muso lungo la metà
del cranio, inoltre, compongono delle altrettanto tipiche quanto funzionali
rughe e pliche. Il muso di tale lunghezza (cortezza), infatti, favorisce
l’insorgere delle piegature del tegumento, in quanto la pelle abbondante
dappertutto, come detto, non risparmia, anzi, esalta la testa più delle
altre regioni somatiche. La tipicità fornita dalle rughe e dalle pliche
caratterizza l’aspetto esteriore della regione facciale, secondo
un’evidenziazione ottica stimolante quel senso di temerarietà cui va
soggetto l’osservatore, tanto utile all’effetto deterrente. La funzione
delle piegature tegumentali ha pure il ricorso storico (presumibilmente, più
teorico che pratico) relativo a favorire lo scorrimento del sangue verso il
basso e non verso gli occhi, durante la presa. La tipicità sostenuta su
questo elemento, quindi, ha un altro supporto, in questo caso, d’ordine
tradizionale. Il morso assestato dal mastino napoletano con potenza,
tuttavia, producendo un risultato troncante, che porta l’azione di presa a
termine in breve tempo, non ha un bisogno preponderante delle rughe e delle
pliche facciali, allo scopo di far defluire il liquido ematico. L’azione
troncante del morso, infatti, diminuendo il tempo di presa, non consente il
deposito di liquido sul muso. Ragion per cui le caratteristiche piegature
cutanee facciali assumono una funzione prevalentemente deterrente e il tipo,
soprattutto, deriva dal corrispondere a questo effetto. La composizione
delle labbra procura le rimanenti (derivanti) caratteristiche.
L’abbondanza, lo spessore e la pesantezza, difatti, ne disegnano la forma
e la posizione, inevitabilmente contornante, ovvero delimitante la regione
facciale. Il connubio tra le labbra superiori e quelle inferiori fanno sì
che, alla loro congiunzione, evidenzino l’abbondanza, mostrando le mucose.
La commessura labiale, conseguentemente allo spessore del pesante tessuto
cutaneo, scende e si scopre. La mucosa, quindi, è visibile all’occhiello
formato dall’incontro delle labbra posteriormente pendenti. Il motivo
della commessura labiale bassa e scoperta è fornito dalle labbra inferiori,
le quali, spesse e pesanti quanto le superiori, trascinano l’angolo della
rima buccale a cadere e rovesciarsi. Le labbra superiori, così, non coprono
completamente quelle inferiori, pur solo nel tratto posteriore, quindi, la
loro commessura si pone come il punto più basso delle labbra stesse e, dato
che la regione facciale ha una delimitazione labiale anche sottostante, pure
del profilo inferiore del muso. Le labbra inferiori, ovviamente, pur non
quanto le superiori, ma equamente abbondanti nel rispetto del contesto
tegumentale generale della testa, in tal punto (solo lì), persino, scendono
ben al di sotto della mandibola ed oltre il margine labiale sovrastante. La
posizione della commessura labiale perpendicolare all’angolo esterno
dell’occhio fa prendere tutto lo spazio disponibile nella lunghezza del
muso, per offrire una rima buccale più lunga possibile. Ciò comporta
un’apertura della bocca longitudinalmente allungata, finché il muso lo
consente. Questa possibilità, certamente, favorita dall’abbondanza
labiale, adatta ad accompagnare l’apertura buccale con l’elasticità
tegumentale necessaria, giova alla copertura della superficie di presa, in
quanto sfrutta la lunghezza mascellare. Nel muso corto del mastino
napoletano, la necessità di usare tutta la sua lunghezza si trasforma nella
massima funzionalità longitudinale di una testa così fortemente
brachicefala e brachignata. La commessura labiale posta perpendicolarmente
all’angolo palpebrale esterno, pertanto, fornisce il più funzionale
diametro longitudinale, ricavabile in un contesto facciale altrimenti ancora
meno utile, se il muso non potesse usufruire dell’intera lunghezza
mascellare, già corta (ma sarebbe decisamente peggiore se la commessura
labiale fosse più antistante) per ottenere la più efficace copertura della
superficie di presa. La commessura labiale posizionata bassa, come detto,
tale da rappresentare il punto più inferiore delle labbra e, per via della
loro abbondanza, pure del muso, fa sì che le labbra superiori scendano
molto al di sotto della mandibola. Il profilo inferiore laterale del muso
fornito dalle labbra superiori, pertanto, copre abbondantemente il profilo
mandibolare. Lo spazio tra il margine labiale superiore così disceso e le
branche mandibolari risulta notevole, stante la tipica e funzionale
profondità della regione facciale, delimitata inferiormente dalle
abbondanti labbra superiori. La distanza inferiore tra le sovrastanti labbra
superiori e le sottostanti labbra inferiori è minore, rispetto alla
distanza con la mandibola, ovviamente, perché la pelle mandibolare è
rilassata dall’abbondanza cutanea inevitabilmente presente anche lì. La
dimensione del muso data dalle labbra superiori molto sviluppate in altezza
è fondamentale nell’effetto deterrente. La cubatura della regione
facciale è conformata e favorita dalle labbra superiori così discese, la
quale deficienza di sviluppo verticale diminuisce la dimensione del muso e
il conseguente effetto deterrente. Scade, in tal modo, pure la tipicità,
poiché la forma del muso si modifica. La funzione dello sviluppo verticale
delle labbra superiori avvantaggia l’effetto deterrente quando il mastino
napoletano abbaia. L’apertura della bocca, infatti, non diminuisce
l’effetto deterrente, che può perdersi dalla suddivisione del blocco
mascellare, con il distacco della mandibola dalla mascella superiore,
causante lo spazio vuoto intermascellare. La copertura dell’intera regione
facciale resta garantita dalle così verticalmente abbondanti labbra
superiori, in modo che il blocco mascellare aperto, pur distanziando le
mascelle, rimane ugualmente coperto dal tegumento labiale. Il muso, quindi,
si presenta pieno, seppur virtualmente, in quanto si tratta sì di una
copertura totale della regione facciale, nonostante l’apertura della
bocca, ma la pienezza interna è sacrificata dalla distanza intermascellare.
A bocca aperta, ovviamente, la forma cubica del muso subisce un allungamento
verticale, determinando una figura geometrica ancora più accentuata in
altezza. Tutta la conformazione labiale superiore conduce a determinare una
disgiunzione anteriore a forma di “V” rovesciata, che è la conseguenza
dell’abbondanza, dello spessore e della pesantezza tegumentale.
L’abbondanza fa sì che la “V” rovesciata sia alquanto allungata,
ossia dal punto dove inizia la disgiunzione al punto più basso dei margini
labiali anteriori, prima che curvino lateralmente, esiste una certa
distanza. Tale distanza disgiuntiva è sinonimo delle labbra molto
sviluppate verticalmente. Lo spessore tegumentale antepone le labbra
superiori. La parte superiore del muso, per questo, sopravanza la parte
inferiore. Le labbra superiori sopravanzate non trovano appoggio sottostante
per i propri margini, per cui anche a bocca chiusa la disgiunzione labiale
anteriore disegna la tipica “V” rovesciata. La pesantezza del tessuto
labiale favorisce tale disegno disgiuntivo, che si manifesta tale e quale
alla disgiunzione visibile a bocca aperta. A bocca chiusa, la “V”
rovesciata assicura la tipicità, perché accompagnata dallo sviluppo
labiale verticale. Il disegno disgiuntivo anteriore funziona egregiamente a
favore dell’effetto deterrente del muso. A bocca aperta, infatti, le
labbra superiori abbondanti, spesse e pesanti, ideali a formare la “V”
rovesciata, scendono sulla faccia anteriore del muso, mantenendo la visuale
di un blocco facciale più coperto possibile. Anche in tal modo, la
voluminosità del muso non perde efficacia dal vuoto che la bocca aperta
determina anteriormente. La “V” rovesciata, come tutte le altre
caratteristiche labiali, evidenzia che la priorità funzionale spetta
all’effetto deterrente, piuttosto che alla presa. La funzione di presa,
dal punto di vista labiale, non è agevolata al massimo, ma l’effetto
deterrente che le labbra impongono al muso prevede un compromesso del
genere. Mascelle La constatazione che sono forti è verificabile dallo
sviluppo tridimensionale del muso, assicurante un substrato osseo
consistente. Forti mascelle è sinonimo di morso potente, quindi, della
massima funzionalità nel mastino napoletano. Le branche, conseguentemente,
sono ben robuste, per quella sintonia mascellare tanto efficace. Le branche
mandibolari ben robuste svolgono l’effetto del martello adeguato
all’effetto dell’incudine della mascella superiore, perciò, il morso
ottiene tutta la potenza sprigionata da un substrato osseo così fortemente
conformato. La mandibola ben sviluppata lateralmente non diminuisce la forza
ossea. Serve, soprattutto, ad assicurare che il muso non sia troppo corto.
Lo sviluppo laterale della mandibola, comunque, avviene entro il forte
contesto osseo dell’intera struttura mascellare. Non può, pertanto,
oltrepassare quel limite di lunghezza condizionato dalla forte ossatura
facciale. Le arcate dentarie combacianti derivano dall’identica lunghezza
della mascella superiore e della mandibola. Trattengono tutta la potenza
espressa dalle forti mascelle. L’effetto del martello della mandibola non
si disperde, perché completamente attutito in ogni punto dall’effetto
dell’incudine della mascella superiore, che lo traduce nel morso potente e
troncante. Gli incisivi regolarmente allineati sono sinonimo della larghezza
delle mascelle, perciò assicurano la capacità trasversale della superficie
di presa e lo sviluppo mascellare che fornisce la massima funzionalità, non
solo nella presa. Il diametro trasversale del muso favorito
dall’allineamento degli incisivi, difatti, offre la larghezza adeguata
alla cubatura della regione facciale, necessaria pure all’effetto
deterrente. Denti La salute della dentatura è manifestata dal colore
bianco. Lo smalto pulito, conseguentemente, assicura che i denti, appunto,
perché sani, sono nelle condizioni ottimali per adempiere alla funzione di
presa. Lo sviluppo della dentatura è agevolato dalla salute indicata dallo
smalto pulito. I denti bianchi, infatti, ottengono il miglior processo di
sviluppo. La dentatura ben sviluppata è indispensabile per sintonizzarsi
alle forti mascelle. La potenza mascellare, così, trova corrispondente
funzionalità nell’applicazione terminale dell’azione di presa (morso).
La presa, in effetti, è agevolata dai denti ben sviluppati, dato che sono
in grado di tradurre tutta la forza ricevuta dalla base ossea, ove sono
impiantati. L’allineamento dell’impianto dentario esprime la correttezza
delle mascelle. I denti regolarmente allineati consentono la più efficiente
posizione nella chiusura mascellare. Chiudono, pertanto, secondo il più
ottimale contatto. Il morso ne trae il massimo vantaggio, determinato dalla
superficie di presa che usufruisce dell’allineamento, per presentarsi
ampia. Il numero completo di denti è la garanzia delle corrette dimensioni
del muso, qualora siano ben sviluppati ed allineati. La dentatura completa
consente la migliore funzionalità per un cane da presa e, nel caso del
mastino napoletano, appunto, perché garante dei diametri della regione
facciale, favorisce l’effetto deterrente, che tanto dona alla tipicità.
Tutte le caratteristiche relative alla dentatura conducono alla chiusura
anteriore, per vederla presentata a forbice o a tenaglia. Entrambe queste
chiusure anteriori annoverano le mascelle lunghe eguali. La rilevazione del
morso chiuso agli incisivi consente di appurare la lunghezza mascellare, che
pur eguale nel substrato osseo, può presentarsi nei due modi di contatto
dentario, a seconda della posizione. La mascella superiore e la mandibola di
eguale lunghezza producono un contatto degli incisivi rivolto a manifestare
le due posizioni che si differenziano nella conclusione funzionale. La
chiusura a forbice produce un morso più adatto a tagliare e trattenere;
mentre, quella a tenaglia applica una maggior pressione, dato che si oppone
perfettamente. La chiusura a tenaglia, però, accusa un maggior logorio, non
solo durante l’azione di lavoro, ma pure a riposo, stante il contatto tra
i margini superiori (fior di giglio) degli incisivi. Attivata nel lavoro,
infatti, la tenaglia pressa nella stessa direzione, concentrando la potenza
mascellare nello stesso punto, cioè, nei margini liberi, simmetricamente
opposti l’uno all’altro. Il logorio è accelerato durante il riposo a
bocca chiusa, dove il contatto tra i margini liberi fa usurare ciascun
incisivo direttamente dall’omonimo della mascella opposta. La dentatura a
tenaglia, pertanto, logorandosi più in fretta, sia nel lavoro, sia a
riposo, penalizza la funzionalità nel corso del tempo, facendo diminuire la
potenza del morso con l’età, oltretutto, aggravando la regolare usura in
un più breve spazio temporale. La chiusura a forbice, tuttavia, perde in
potenza, in quanto non applica pienamente la forza mascellare, disperdendola
dalla mancata opposizione simmetrica. Il lavoro di presa del mastino
napoletano, appunto, agevolato dal potente morso troncante, non trova nella
dentatura a forbice la massima applicazione delle peculiarità mascellari.
Ragion per cui disperde una percentuale di potenza e, sotto questo punto di
vista, il morso è inferiore alla tenaglia. Il vantaggio derivato dal minor
logorio, però, rende il mastino napoletano chiuso a forbice funzionale per
un tempo maggiore. La potenza mascellare, inoltre, è talmente pressante che
la funzione troncante conduce ugualmente allo scopo, senza difficoltà.
Verso la funzionalità della presa, poi, intervengono tutti i denti, non
solo gli incisivi, che sono, tra l’altro, i meno adatti ad imprimere la
potenza mascellare. I denti laterali (premolari e molari), difatti, offrono
una maggior applicazione della potenza mascellare, oltre perché più
larghi, quindi, più adatti a pressare, anche per la leva meccanica più
efficace. Posizionati arretrati, quelli centrali, ossia i premolari più
grandi (Pm3 e Pm4) e i molari adiacenti (M1 e M2), si giovano dell’ausilio
della leva meccanica che, in tal punto, applica il maggior concentrato di
forza, rispetto alle leve meccaniche di altro genere, applicate in altri
punti delle mascelle. La chiusura degli incisivi a forbice, inoltre, trova
ausilio pure dai canini, che posti a loro lato si prestano ad applicare la
potenza mascellare tramite la penetrazione in profondità, favorita dalla
loro forma appuntita e dalla loro lunghezza. Succede, pertanto, che gli
incisivi a forbice, nel complesso della dentatura del mastino napoletano,
risultano i più indicati, perché si logorano meno, mantenendosi salutari e
funzionali più a lungo. La minor pressione degli incisivi, come detto,
trova aiuto dalla pressione decisamente troncante degli altri denti più
adatti a tale compito, per cui non si presta necessaria la chiusura
anteriore a tenaglia, nemmeno per questo scopo. Secondo tutto ciò, quindi,
la chiusura più funzionale che, per di più, mantiene più tempo il cane in
salute, tra le due, è quella a forbice, seppur la differenza è minima.
Occhi La posizione subfrontale è dettata dalla testa brachicefala, ovvero
dal cranio largo. L’asse palpebrale, che congiunge i due angoli degli
occhi, quindi, si presenta leggermente obliquo, rispetto alla posizione
frontale. L’orizzonte, conseguentemente, determina con l’asse oculare
centrale un angolo minimo. La lieve obliquità dell’asse centrale
dell’occhio è, pertanto, la posizione più tipica nel mastino napoletano,
stante la correlazione con le altre caratteristiche tipiche, che sono tali
in quanto pure funzionali, appunto, come la brachicefalia e la larghezza
cranica determinante questa tipologia. L’occhio subfrontale acquista
valore esclusivo nella tipicità di razza, dunque, perché si pone come la
posizione occupata entro una testa funzionale negli altri aspetti,
prevalentemente craniometrici. Gli occhi subfrontali, infatti, sono sinonimo
della craniometria ideale. La stessa posizione subfrontale e il cranio largo
mantengono gli occhi ben distanziati l’uno dall’altro. La tipicità trae
dalla distanza degli occhi gli elementi espressivi favoriti dal contesto
generale della testa. Gli occhi distanti, assolutamente, sono contenuti in
una testa brachicefala. La forma dell’occhio vede la rima palpebrale
tendente al rotondo strettamente dipendente alla posizione. Gli occhi
subfrontali non possono altro che avere l’ogiva molto grande, per cui
contornante il bulbo oculare con un disegno rotondeggiante. Il bulbo
oculare, tuttavia, si presenta infossato, pur se rotondo. L’infossatura
dell’occhio, pertanto, non dipende dalla rima palpebrale, in quanto
rotonda lo copre poco e lo lascia ben aperto. Ragion per cui il bulbo
infossato è determinato dalle caratteristiche circostanti, imputabili alla
pelle abbondante della testa. La pelle sopracciliare, infatti, copre
l’occhio, rima palpebrale compresa, al punto di presentarlo arretrato per
conseguenza dello spessore cutaneo sovrastante. L’abbondanza e lo spessore
del tegumento sopracciliare, quindi, lo infossa, nonostante che la forma del
bordo palpebrale lo favorirebbe diversamente. Il compromesso tra
l’infossatura causata dallo spessore e dalla plica della pelle
sopracciliare con il bulbo oculare ben aperto dal bordo palpebrale
rotondeggiante fa sì che l’occhio sia solo leggermente arretrato. La
leggera infossatura, però, già acquisisce valore funzionale. L’occhio,
difatti, pur leggermente infossato, resta protetto. Nella funzione di cane
da presa evita contatti debilitanti durante la fase del morso. Si rivela
d’aiuto anche nella funzione di cane da guardia, in quanto lo protegge da
eventuali colpi portati agli occhi, ma prima ancora comunica l’effetto
deterrente con uno sguardo più impressionante. La pigmentazione scura
dell’iride non giova all’effetto deterrente comunicato con lo sguardo,
il quale è determinato dalla tonalità più chiara possibile. L’occhio
chiaro, effettivamente, incupisce l’espressione, ma anche nel mastino
napoletano è preferita l’iride ben pigmentata. L’occhio scuro, infatti,
presentando notevoli vantaggi alla vista, risulta funzionale in ogni
mansione. Una vista perfetta è necessaria in qualsiasi circostanza. Ragion
per cui l’iride deve essere più pigmentato possibile, quindi, sempre più
scuro rispetto al colore del mantello. La pigmentazione dell’occhio più
scura del mantello garantisce la massima tonalità che quel cane può avere.
Nel caso del colore dell’iride, non si consente il compromesso
dell’occhio chiaro per incupire l’espressione al fine della funzione di
cane da guardia deterrente. Una vista peggiore, anzitutto, svantaggia il
cane nell’individuare la fonte del pericolo, per cui non potrebbe
immediatamente esercitare l’effetto deterrente dell’iride chiara. La
prima situazione che il mastino napoletano deve affrontare è quella di
vedere da dove proviene il pericolo, tramite una vista ottimale; poi, sempre
nel pieno delle facoltà visive, può intervenire senza deficienze a
metterlo in precarie condizioni d’intervento. Nella funzione di cane da
guardia, pertanto, le prerogative funzionali più efficaci, in tal senso,
hanno la precedenza, rispetto ad una caratteristica che nuocerebbe alla
mansione stessa, fin dall’inizio dell’azione di lavoro. C’è da
aggiungere che, pur se l’occhio chiaro incupisce l’espressione e
favorisce l’effetto deterrente, la leggera infossatura del bulbo oculare
diminuisce l’effetto stesso, rendendolo poco visibile, per cui, in questo
senso, perde di funzionalità, fermo restando che l’occhio infossato è già
deterrente per tale caratteristica, quindi, non ha particolare bisogno di un
colore dell’iride difettoso. L’effetto deterrente, inoltre, è garantito
già efficacemente e in misura preponderante dall’insieme delle
caratteristiche etniche del mastino napoletano. L’occhio chiaro non giova
neppure nella funzione di presa per le stesse ragioni. Le difficoltà visive
non consentono di giungere ad assestare il morso nelle condizioni più
facili. L’occhio scuro, quindi, favorisce il momento precedente agli
interventi di lavoro durante entrambe le mansioni cui è chiamato il mastino
napoletano. Nel contesto che consegna la miglior espressione alla tipicità,
infine, l’occhio scuro, rapportato nella tonalità più intensa rispetto
al colore del mantello, favorisce l’aspetto comunicativo trasmesso dallo
sguardo particolarmente efficace verso il padrone e la sua famiglia.
Orecchie La caratteristica del padiglione auricolare di piccola dimensione
assume importanza funzionale e, conseguentemente, acquisisce una percentuale
di valore nel contesto della tipicità. Le orecchie piccole esaltano
l’aspetto deterrente della testa in generale e del cranio in particolare,
perché non nascondono le dimensioni craniometriche. La regione cranica,
pertanto, si presenta nell’effettivo volume, rivelandosi deterrente per ciò
che propone come cubatura del substrato anatomico. Le orecchie grandi,
infatti, non favoriscono un maggior effetto deterrente, con il semplice
fatto di aumentare la dimensione esterna del cranio. L’effetto deterrente
a causa delle orecchie grandi perde efficacia, perché tolgono l’armonia
al cranio e alla testa, allargando virtualmente una struttura già imponente
e, quindi, predisponendo delle dimensioni sgraziate, affatto utili ad
incrementare un aspetto esteriore più che sufficiente nell’architettura
di sviluppo dell’insieme cefalico. Il padiglione auricolare che si
presenta piccolo in rapporto alla mole del cane diventa poco evidente nel
complesso architettonico della testa e non disturba il reale apporto
funzionale della struttura anatomica quale deterrente. L’appendice
piccola, inoltre, offre un appiglio minore a favore dell’avversario
durante la presa. Ciò agevola l’intervento del cane, evitando ferimenti
gravi, se l’avversario afferra l’orecchio. Afferrare il padiglione
auricolare può avvenire facilmente, dato che una volta andato in presa il
cane pone la testa a ridosso della sua vittima, la cui reazione si manifesta
spontaneamente sul punto più vicino, che automaticamente sottopone
l’orecchio a portata di mano. Il malintenzionato, finanche afferrato ad un
braccio, può esercitare istintivamente la reazione di afferrare, a sua
volta, con il braccio libero, ciò che riesce a raggiungere, per cui, con la
testa addosso, l’appendice auricolare grande si propone come il punto più
evidente alla portata dell’istintivo contrattacco avversario. Il morso
potente e troncante riduce i tempi dell’azione di presa, perciò la
reazione dell’avversario può essere negata in fretta, ma nel caso avvenga
un pur minimo contrattacco ecco che l’orecchio ferito debilita il cane nel
prosieguo delle giornate di lavoro, cui non potrà essere successivamente
disponibile con la stessa efficacia funzionale. L’appendice grande, poi,
offre una più ampia superficie di contatto da afferrare, predisponendo
l’orecchio ad una più facile possibilità di ferirsi gravemente, dato che
può essere esercitato un maggior appiglio su cui si scarica la forza
reattiva dell’avversario. La definizione di orecchie piccole in rapporto
alla mole del cane trova applicazione nella forma triangolare del
padiglione, che inserito al di sopra dell’arcata zigomatica e portato
aderente alla guancia, come detto, non deve deformare l’effetto deterrente
della testa. L’aderenza alla guancia serve per non allargare il cranio
oltre il dovuto, allo scopo di non causare la dimensione sgraziata
dell’intera regione. L’inserzione posizionata sopra l’arcata
zigomatica è la conseguenza della testa brachicefala e della relativa
larghezza del cranio. L’orecchio inserito al di sopra dell’arcata
zigomatica pone il punto più basso del padiglione situato più alto del
livello dell’occhio, determinato dal prolungamento immaginario verso
l’indietro dell’asse palpebrale. L’occhio subfrontale, essendo appena
(poco) obliquo, non porta il proprio asse centrale a salire posteriormente
troppo verso alto, come è constatabile dalla posizione dell’angolo
palpebrale esterno, per cui l’orecchio attaccato alto, in realtà, occupa
una buona parte del tratto superiore e laterale del cranio. La forma
triangolare è garante di un padiglione auricolare non troppo grande, perché
non può superare una lunghezza che copra troppo il cranio. La superficie
triangolare dell’appendice auricolare, infatti, non può essere eccessiva,
se no la forma si presenterebbe disarmonica, rovinando l’aspetto
geometrico dell’orecchio stesso. Considerando che il padiglione è piatto,
una forma triangolare con i lati disarmonici determinerebbe un orecchio
talmente lungo, al punto che l’aderenza alla guancia non si manifesterebbe
totalmente, acconsentendo all’apice di staccarsi e sbattere
fastidiosamente durante ogni azione dinamica. L’orecchio integro,
pertanto, grazie alla superficie piatta, nonché alla piccola dimensione
(valutata in rapporto alla mole del cane) e alla forma triangolare che ne
consegue, aderisce alla guancia senza modificare l’aspetto esterno del
cranio. L’amputazione del padiglione auricolare acquista relazione con
quanto descritto, per cui la tipicità e la funzionalità vengono
ulteriormente favorite. La conchectomia, per questo, deve fornire
all’appendice auricolare la minor superficie, in modo che l’appiglio sia
disponibile il meno possibile e l’effetto deterrente della testa non sia
diminuito da una forma disarmonica, per quanto artificialmente ritoccata.
L’intervento chirurgico, dovendo solo favorire il miglior apporto
dell’orecchio alla tipicità e alla funzionalità, deve ottenere
strumentalmente una forma triangolare quasi equilatera, affinché la
struttura architettonica di una testa grande e pesante sia avvantaggiata
dall’esaltazione delle qualità contestuali. L’amputazione equilatera,
perciò, deve basarsi sulla misura della larghezza all’attaccatura
dell’orecchio e mantenere i margini del padiglione di quella stessa
lunghezza. L’orecchio conchectomizzato rimane portato alto sul cranio.
Offre il minor appiglio possibile e non infastidisce l’azione dinamica,
dato che non aderisce alla guancia sulla quale sbatterci. Il ricorso ad
un’amputazione maggiore, quasi totale, togliendo praticamente l’intera
appendice auricolare, cancella completamente l’appiglio e non presenta
alcun ingombro all’architettura del cranio, acconsentendo che l’effetto
deterrente della testa sia giovato dalla sola visione della voluminosità
cefalica, senza la benché minima traccia sgraziata. Collo Le particolarità
della regione cervicale si manifestano nel profilo, nella lunghezza, nella
forma e nella pelle che la ricopre. Le caratteristiche del collo, oltre che
funzionali, soprattutto, per una caratteristica assolutamente indispensabile
(la pelle), partecipano alla tipicità in notevole percentuale
d’importanza. Profilo del collo Prendendo in considerazione solo il
margine superiore, questo si presenta leggermente convesso. La convessità
superiore della regione cervicale favorisce ciascuna azione dinamica entro
il raggio geometrico della curvatura fornita. L’azione del collo poco
convesso favorisce la produzione di forza. Il profilo leggermente convesso
del mastino napoletano, ovviamente, è utile a produrre la forza necessaria
a sostenere e a coadiuvare la potenza mascellare durante la presa. La
leggera convessità del profilo superiore, infine, evidenzia che il collo
del mastino napoletano non è elegante, bensì conferisce l’aspetto
potente, che aumenta l’effetto nel cane da guardia deterrente. Lunghezza
del collo Rapportata circa a 2,8/10 dell’altezza al garrese, evidenzia una
regione cervicale molto corta. Consegue che non raggiunge la misura della
lunghezza totale della testa, per cui il collo corto esprime la potenza
sulla quale il mastino napoletano costruisce la propria funzionalità. La
regione cervicale molto corta favorisce ulteriormente l’azione dinamica
potente, perciò la funzione di presa (morso) ne trae il massimo vantaggio.
Il collo lungo nella percentuale del 28 % dell’altezza al garrese,
indipendentemente dal rapporto con la lunghezza della testa, è già di per
sé molto corto, ben oltre a quanto basta per sfoggiare quella potenza
cervicale coadiuvante l’azione di presa e donante un maggior effetto
deterrente, grazie all’impatto visivo più impressionante che riesce a
causare. La lunghezza del collo inferiore a quella della testa acquista il
più vantaggioso rapporto funzionale se non oltrepassa il limite di
cortezza, che sancisce l’espletamento delle funzioni locomotorie. Il collo
meno lungo della testa, pertanto, non può raggiungere una misura che, pur
favorendo la potenza nella presa, nonché l’effetto deterrente,
comprometta la dinamicità del movimento. Forma del collo L’aspetto
troncoconico sancisce che il collo non ha la medesima circonferenza in tutta
la sua lunghezza. Questo fa sì che tra i suoi limiti esiste una differenza
perimetrale. Il perimetro al limite anteriore, confinante con la testa,
quindi, non è uguale al perimetro del limite inferiore, confinante con il
tronco. L’uscita del collo dal tronco, vista la possente costruzione
brachimorfa, è molto ampia, per cui si presenta superiore rispetto al punto
di congiunzione con la testa. L’ampiezza del collo nell’inserimento sul
tronco garantisce che la spalla è lunga, in quanto questa correlazione è
strettamente interdipendente. Il collo, infatti, esce maggiormente ampio più
la spalla è lunga. La regione cervicale prende la forma troncoconica perché
la parte posteriore (base) del cranio non è ampia quanto la lunghezza della
spalla. Significa che il diametro sezionale al confine con la testa è
minore di quello al confine con il tronco. La differenza, tuttavia, è
minima, stante la testa massiccia e la notevole circonferenza cranica. Va da
sé, pertanto, che il collo si affusola di poco dal tronco verso la testa.
Il perimetro di circa 8/10 dell’altezza al garrese, riferito alla metà
della sua lunghezza, quindi, rappresenta la misura intermedia. La
circonferenza maggiore all’uscita dal tronco e minore all’attaccatura
con la testa, però, dato che la differenza è limitata, non varia più di
tanto da questa misura, che va indicativamente presa per l’intera
lunghezza cervicale. Il perimetro nella percentuale di un 80 %
dell’altezza al garrese, perciò, fa sì che il collo sia possente,
rivelandosi funzionale nel coadiuvare la testa durante l’azione della
presa e nel dimostrare la massa anatomica efficacemente deterrente durante
la mansione della guardia. La massa troncoconica così conformata e
consistente propone una muscolatura ben sviluppata. Il collo ben muscoloso
conferisce adeguato supporto all’ossatura cervicale, affinché il
perimetro raggiunga la misura ottimale. La forma troncoconica appena
evidente fa risultare uno sviluppo muscolare uniforme in tutta la lunghezza.
La regione cervicale ben muscolosa favorisce il volume, determinando il
perimetro molto ampio. Pelle del collo La particolarità dell’abbondanza
di tegumento su tutta la superficie corporea del mastino napoletano si
manifesta con più importanza, soprattutto, sul collo. La pelle abbondante,
infatti, unitamente alle importanti rughe e pliche della testa, trova
proprio nel collo il massimo sviluppo particolare. La copertura tegumentale
della regione cervicale sfocia nella lassità dello sviluppo cutaneo
sottostante, dove la pelle compone una caratteristica giogaia. Le pieghe
cutanee situate sulla faccia sottostante del collo, appunto, rispondono al
particolare bisogno di conformare un contesto tegumentario maggiormente
abbondante, laddove serve per soddisfare l’apporto della pelle verso la più
efficace caratteristica di tipicità e funzionalità. Nel contesto della
pelle contornante le due regioni somatiche anteriori, il connubio tra la
testa e il collo, tramite l’abbondanza tegumentale, si manifesta nel
conferire un disegno di lassità assolutamente caratteristico, in quanto
dona al mastino napoletano l’aspetto esteriore che lo rende
inconfondibile. La tipicità, pertanto, si caratterizza dalla presenza di
una giogaia composta secondo il contesto dell’abbondanza cutanea generale,
pur sviluppandosi entro un limite di lassità quasi indipendente dallo
sviluppo tegumentale circostante. La giogaia, quindi, si presenta con una
conformazione ben definita, indipendentemente dalla pelle più o meno
abbondante, che ricopre e caratterizza la testa. La pelle abbondante al
punto di formarsi in giogaia trova l’espletamento funzionale quale
componente dal maggior effetto deterrente, se considerata nel contesto della
lassità tegumentaria generale; nonché, quale componente di protezione
delle parti anatomiche ivi coperte, se considerata soltanto nella posizione
somatica occupata. La ricchezza di pelle lassa al margine inferiore del
collo trova il limite di sviluppo cutaneo nella suddivisione derivante dai
punti ove inizia. Partendo dalle branche mandibolari, si avvale di due punti
dai quali si sviluppa protraendosi fino alla metà del collo. La pelle lassa
al margine inferiore del collo, quindi, nasce dalla zona somatica
antistante, dalla quale dipende nella conformazione del tratto di giogaia
pertinente alla regione cervicale. I due punti iniziali sviluppano la
giogaia verso una duplice piegatura rilassata, relativa a ciascuna delle
branche mandibolari. La pelle della giogaia del tratto mandibolare, perciò,
nasce parallela, giacché distinta dalla distanza tra le due branche, per
cui è nettamente suddivisa dallo spazio lasciato dal canale somatico, privo
di lassità cutanea, entro i due limiti ossei laterali della mascella
inferiore. La giogaia che parte suddivisa dalle branche della mandibola
prosegue parallelamente, finché termina a metà lunghezza del collo. La metà
anteriore della parte sottostante del collo, quindi, è quella ed unica ad
essere ricoperta dalla giogaia, rappresentando la condizione che consente al
margine inferiore della regione cervicale ricco di pelle lassa a non
presentarla troppo abbondante. La condizione dettata dalla suddivisione
della giogaia dai punti iniziali delle branche mandibolari pone il limite
dello sviluppo longitudinale della ricca pelle lassa proprio arrivando fino
alla metà anteriore del collo. La lassità della pelle, così, si presenta
ben suddivisa e non abbondante. Sconfinando oltre il limite intermedio, per
arrivare a coprire parte della metà posteriore del collo, la pelle lassa,
già ricca anteriormente, perde lo sviluppo parallelo imposto dalle branche
della mandibola, poiché l’aumento della ricchezza cutanea, mediante il
suo sviluppo in lunghezza, porta la giogaia ad ammassarsi, più si allontana
dal punto ove inizia a suddividersi. Mancando i punti anatomici dettati alla
suddivisione, la giogaia si avvia ad unirsi, finché la rilassatezza
tegumentale perde la direzione obbligata dalla mandibola. La pelle rilassata
a partire dalle branche mandibolari, difatti, non arriva a mantenersi ben
suddivisa oltre una certa continuazione longitudinale, per cui si unisce
superando la metà del collo, dove perde l’obbligata direzione iniziale.
Oltrepassando il limite dello sviluppo longitudinale che, tra l’altro,
garantisce una giogaia non abbondante, la pelle aumenta al punto di
rilassarsi ulteriormente, a causa della pesantezza. La giogaia più
abbondante, come detto, si ammassa indivisa, persino, compromettendo la
suddivisione anteriore, con le condizioni di lassità che la possono unire
già a ridosso del limite delle branche mandibolari. La giogaia ammassata al
collo, rivelandosi indivisa ed appesantita, si presenta come l’indice di
una scadente funzionalità. Composta seguendo uno sviluppo trasversale,
invece che longitudinale, esprime una carente tonicità sottostante. La
stessa tipicità risente dell’eccesso di lassità cutanea, poiché la
giogaia non è più tale, ma soltanto un accumulo di pelle. La pelle così
troppo abbondante ed ammassata non acquista neppure un maggior effetto
deterrente, in quanto fa apparire il collo solo come sgraziato, perciò
antiestetico. Tronco La costruzione rettangolare si evidenzia in un diametro
longitudinale che, superando l’altezza al garrese del 10 %, fa apparire il
mastino napoletano allungato, tra l’altro, ben oltre il confine della
quadratura. Il rettangolo determinato dal tronco, quindi, fuoriesce dalla
compattezza della costruzione quadrata, presentandosi alquanto superiore
alla figura geometrica equilatera. L’allungamento della costruzione del
mastino napoletano è accompagnato da una struttura architettonica adeguata,
pena la carenza funzionale, che il tronco rettangolare manifesta in
debolezze fisiche, maggiormente evidenti più il tratto dalla punta della
spalla alla punta della natica si presenta superiore all’altezza al
garrese. Consegue che l’impalcatura scheletrica risulta notevolmente
sviluppata, affinché supporti il tronco molto allungato. Linea superiore
del tronco Il tratto anatomico dell’intero profilo superiore del tronco
manifesta la robustezza necessaria presentandosi pressoché rettilineo in
tutta la sua lunghezza. L’unico punto leggermente elevato della linea che
congiunge il collo alla groppa è proprio quello iniziale, rappresentato dal
garrese. La regione delle prime vertebre dorsali delimitate dalle scapole
non è molto elevata, perché il mastino napoletano, quale cane che sviluppa
forza fisica, piuttosto del movimento, ha bisogno della massima e regolare
orizzontalità della linea superiore del tronco, in modo che lo sforzo
muscolare non finisca verso l’alto, a seguire un garrese molto di più
sopraelevato, bensì resti il più basso e lineare possibile nella continuità
di prosecuzione dalla groppa verso il collo. L’esigenza di restare
abbassato deriva dal mantenere parallela al suolo la forza muscolare
impressa in avanti dal treno posteriore. Mantenuta parallela tramite
l’orizzontalità dell’intera linea superiore del tronco, ecco che il
tratto di forza si scarica in fretta verso terra, senza disperdersi lungo
una distanza maggiore, se fosse allontanata dal garrese più sopraelevato,
quindi, in prossimità della testa, che è, invece, proprio dove serve, per
coadiuvare l’azione di presa (morso), nel modo in cui la pressione
sull’appoggio degli arti solidifica la postazione quadrupedale, generante
la stabilità necessaria al mastino napoletano. La forza scaricata in tutta
la potenza prodotta e disponibile, trattenuta dalla più breve distanza
imposta dal parallelismo orizzontale delle due linee che delimitano
longitudinalmente la costruzione (quella dorsale e quella plantare), perciò,
si presta ad agevolare la funzione dell’impalcatura scheletrica come il
contrappeso più efficace nel supportare la presa. La lunghezza del garrese
agevola la linea superiore del tronco a mantenersi completamente rettilinea,
poiché il lieve dislivello con il dorso risale dolcemente, assorbendo la
forza muscolare trasferita anteriormente, senza un brusco passaggio tra le
due confinanti sottoregioni, che sarebbe tale da compromettere il risultato
della trattenuta orizzontale (parallela alla linea plantare) e continuativa
in avanti della potenza fisica prodotta posteriormente. L’allungamento del
punto anatomico rappresentato dalle prime cinque vertebre dorsali, pertanto,
in virtù di non essere molto elevato, trova il leggero tratto saliente
adatto a facilitare, con una limitata pendenza, la continuazione del potente
trasferimento dell’energia muscolare. Il profilo della parte iniziale
della linea superiore del tronco, perciò, si presenta con l’apice delle
scapole appena risalente, quasi a prolungare il dorso, senza indebolirlo
nell’efficacia funzionale, a causa di un dislivello troppo accentuato. La
regione del garrese larga è conseguente alla necessità che tutta la faccia
superiore del tronco sia molto ampia, allo scopo di avere lo spazio per
allargare la composizione della forza muscolare del dorso. L’orizzontalità,
unitamente all’ampiezza, compone una piattaforma dorsale che risulta tanto
più efficace quanto più piana, nonché capiente, è la superficie
superiore del torace e delle retrostanti regioni (lombi e groppa). Il
garrese, appunto, è largo perché situato su una struttura architettonica
ampiamente brachimorfa, dove la larghezza dell’intero spazio longitudinale
del tronco fa raggiungere alla propria piattaforma superiore una tale
capienza di centimetri quadrati tra le maggiori nel panorama delle razze
appartenenti allo stesso tipo costituzionale. La faccia superiore del tronco
ampia e piatta distribuisce la forza fisica secondo una diffusione
trasversale alquanto ravvicinata alla misura della diffusione longitudinale,
equilibrando la disponibilità della potenza muscolare su un parallelismo
identico tra la piattaforma dorsale e la base plantare. L’ampiezza del
quadrilatero di sostegno (delimitato dagli arti), perciò, equivale a quella
del quadrilatero parallelo (delimitato dal collo [margine posteriore], dal
torace e dalla groppa), per cui la forza composta superiormente si allarga
occupando la superficie di pressione verso il basso, che serve per coprire
lo stesso spazio sottostante, deputato a raccogliere totalmente la potenza
fisica sovrastante, affinché la funzionalità di cane possente non abbia
inutili dispersioni, bensì sfrutti completamente quanto produce. Dorso Il
tratto del torace dopo (dietro) il garrese largo è indispensabile
all’ampiezza della superficie superiore del tronco, in quanto dalla
larghezza della regione dorsale dipende la larghezza delle due regioni
retrostanti (lombi e groppa), nonchè della regione antistante (garrese). La
lunghezza del dorso di circa 1/3 dell’altezza al garrese risponde
all’elevata profondità (lunghezza) del torace, per soddisfare la capienza
dello spazio volumetrico in senso longitudinale. Il dorso così lungo, oltre
a comporre una gabbia toracica profonda (lunga), contribuisce alla
costruzione rettangolare. Siccome la figura rettangolare del tronco offre al
mastino napoletano dei maggiori vantaggi funzionali, più si presenta
allungata, consegue che la lunghezza del dorso favorisce la conformazione
geometrica della costruzione fisica più utile. Lungo il 33 % dell’altezza
al garrese, il dorso non disperde la forza muscolare sovrastante, grazie
alla sua larghezza, appunto, perché ampia lo spazio trasversale, ove
contenerla completamente. Il dorso largo e lungo, quindi, mantiene le
proporzioni tra la costruzione rettangolare allungata e lo sviluppo
trasversale indotto dal tronco brachimorfo. La mole del mastino napoletano,
così, trova lo spazio per manifestare il funzionale volume imponente, utile
nella duplice destinazione di cane da guardia dall’aspetto deterrente e di
cane da presa dal morso troncante. La larghezza della regione dorsale
annovera il corrispondente torace ampio. L’ampiezza del costato sviluppa
trasversalmente lo spazio volumetrico della capienza toracica, conferendo un
altrettanto elevato contributo funzionale, quanto la sua profondità
(lunghezza). Le costole sono lunghe perché obbligate a coprire l’ampio
diametro trasversale, con un raggio d’estensione ben proteso
all’esterno. La lunghezza delle coste, dapprima, serve ad allargare la
gabbia toracica, predisponendo l’ampia superficie dorsale; poi, per
scendere mantenendo la stessa larghezza in tutto lo sviluppo verticale e
collegarsi allo sterno, in modo che la superficie inferiore sia equamente
ampia, come la parallela piattaforma sovrastante. Le coste lunghe, quindi,
per allargare la gabbia toracica assumono una conformazione laterale
arcuata. Il torace ampio superiormente quanto inferiormente, pertanto,
dispone di coste che si presentano ben cerchiate, soprattutto, ai lati, pena
una discesa convergente verso lo sterno, che diminuirebbe l’ampiezza
sottostante, fino a farle perdere la superficie di centimetri quadrati
medesima a quella superiore, al punto di non essere altrettanto disposta a
piattaforma. Consegue che verticalmente le pareti laterali del costato sono
ben cerchiate, confezionando un torace con tutte le caratteristiche
sopraccitate, affinché la funzionalità ne tragga il massimo vantaggio in
possanza e in contenuto. La capacità toracica di funzionare perfettamente
dipende dalla capienza geometrica del fattore perimetrale. Il volume del
torace, infatti, trova nell’ampia circonferenza l’applicazione
geometrica della capacità dell’espansione fisica e respiratoria. Lo
sviluppo volumetrico riferito all’altezza al garrese, conseguentemente,
assume un valore matematico che aumenta l’apporto funzionale a favore
della possanza e della respirazione, addirittura, superandola notevolmente.
L’indice di sviluppo perimetrale della gabbia toracica del mastino
napoletano di circa 1/4 maggiore dell’altezza al garrese descrive
un’espansione superiore alla misura di riferimento, però secondo quanto
corrisponde al tipo costituzionale dolicomorfo. Ricavato con
l’elaborazione dell’indice corporale (lunghezza del tronco x 100 :
perimetro toracico), tramite le indicazioni biometriche standardizzate,
tuttavia, il tipo dolicomorfo non calza la struttura architettonica del
molosso partenopeo. L’aspetto dolicomorfo, altresì, è opposto alla
costruzione fisica presentata dalla nostra razza. Il tipo morfologico del
mastino napoletano, difatti, è brevilineo e non longilineo, invece, come
rappresentato dalla costruzione dolicomorfa (esempio: i levrieri).
Rientrando affatto nel tipo dolicomorfo, anzitutto, risulta che il perimetro
toracico superiore del 25 % all’altezza al garrese non riflette la
conformazione generale di pesante brachimorfo, propria del nostro molosso.
L’indice di sviluppo perimetrale, pertanto, si presenta della corretta
tipologia costituzionale quanto maggiore è l’espansione toracica. La
circonferenza del costato, quindi, più aumenta, più il brachimorfismo
diventa funzionale nell’imponenza fisica e nella capacità respiratoria.
La regione dorsale, inoltre, sfocia nel rapporto armonioso con la
retrostante regione. I lombi, conseguentemente, si fondono con il dorso,
tramite la muscolatura ben sviluppata, in modo che non esista alcun
dislivello. La regione lombare, proprio per questo, è ben fusa con
l’antistante regione, grazie alla sua muscolatura ben sviluppata. La
muscolatura ben sviluppata e manifestata in larghezza, appunto, serve a non
presentare dislivelli, affinché l’ampiezza trasversale della superficie
superiore del tronco non sia più stretta ai lombi. Ragion per cui i limiti
longitudinali della piattaforma dorsale continuano all’indietro senza
stringersi a ridurre la trasmissione della forza impressa dal treno
posteriore, che troverebbe una limitazione nel trasferimento della potenza
muscolare dalla groppa verso il dorso. La forza prodotta posteriormente
avrebbe difficoltà a passare completamente in avanti, a causa del percorso
ad imbuto delimitato dalla regione lombare stretta e disarmonica. Groppa
Altrettanto larga, per mantenere la superficie superiore del tronco ampia
anche nel tratto posteriore, per l’appunto, segnala che le sue ossa sono
ben diametralmente sviluppate in senso trasversale. Contengono, inoltre, la
relativa muscolatura, conseguentemente, altrettanto ben sviluppata in
spessore. La larghezza della groppa assume la funzionalità occorrente a far
sì che la forza muscolare da trasmettere anteriormente nasca entro le
maggiori possibilità anatomiche, per poterla avviare tale e quale è
prodotta nella più efficace potenza. Lo spazio osseo disponibile
trasversalmente, infatti, agevola lo sviluppo muscolare di questa regione.
La groppa muscolosa assolve il compito di avviare la forza appena partita
dal treno posteriore, con la stessa intensità di trasmissione presente nel
punto dove nasce. Trovando lo spazio per svilupparsi, grazie alla larghezza
ossea, la muscolatura contribuisce ad irrobustire l’intera regione
pelvica. La robustezza della groppa è indispensabile per la funzione che
svolge. La groppa robusta è solida, al punto di trasmettere integralmente
la forza muscolare verso le regioni antistanti, per cui favorisce la potenza
della linea superiore del tronco, in ogni tratto della sua lunghezza. La
lunghezza dall’ilio all’ischio pari a 3/10 dell’altezza al garrese si
propone a supportare lo sviluppo della groppa in senso trasversale, affinché
valgano le condizioni sopraccitate. La potente muscolatura (compresa quella
pelvica) del mastino napoletano, infatti, pur sviluppata in spessore, si
proporziona pure in data lunghezza. Il margine di contrazione, così, è
sufficiente a produrre la forza potenzialmente in grado di essere
sprigionata da un siffatto corpo muscolare, che occorre trasmettere
integralmente attraverso l’intera linea superiore del tronco. Il diametro
longitudinale del 30 % dell’altezza al garrese, rapportandosi con il
diametro trasversale, consente l’irrobustimento più redditizio.
L’inclinazione del coxale di circa trenta gradi, rispetto
all’orizzontale, posiziona la groppa a favore della versatilità
funzionale di una forte regione pelvica, pur prevalentemente deputata alla
potenza anatomica. La necessità della groppa di essere costruita
potentemente, piuttosto di far muovere speditamente, appunto, non toglie la
prerogativa di mantenersi versatile. Ragion per cui la regione pelvica si
presenta obliqua, al punto di annoverare sia le caratteristiche atte ad
essere potente, sia le caratteristiche ancora adatte ad un buon movimento,
seppur non veloce. L’obliquità della groppa da trottatore potente
condiziona la salienza delle anche. La posizione delle anche, per questo,
raggiunge il livello della linea superiore lombare. Ciò consente di
mantenere la linea superiore del tronco rettilinea nella lunghezza maggiore
possibile. La funzionalità delle anche posizionate a livello del profilo
superiore si manifesta nel favorire la totale trasmissione della forza
anatomica in modo lineare, quindi, non dispersivo. Il passaggio verso
l’avanti della potenza posteriore trova proprio grazie al livellamento tra
anche e lombi la miglior posizione per congiungere le due regioni
confinanti. Petto Largo al punto di presentarsi possente, conferisce una
dimensione consona alla costruzione da pesante brachimorfo. La larghezza lo
apre in modo da contenere dei muscoli pettorali molto sviluppati, che
forniscono l’imponenza alla piattaforma verticale antistante del blocco
corporeo anteriore, indispensabile ad incutere timore a chi osserva il
mastino napoletano, soprattutto, visto di fronte. L’apertura larga del
petto, favorita dalla potente situazione muscolare ivi contenuta, conduce ad
un ampio diametro trasversale del torace. La larghezza del petto,
ovviamente, è correlata a quella del costato, appunto, per disporre della
stessa ampiezza, affinché il blocco corporeo anteriore, ovvero antero-(bi)laterale
(petto, spalle e torace), si presenti uniforme nella strutturazione
massiccia. Lateralmente, pertanto, la congiunzione tra il torace e la spalla
non presenta alcun dislivello, bensì la pelle segue un regolare decorso del
substrato anatomico. Il petto largo raggiunge il 40-45 % dell’altezza al
garrese, in modo da fornire l’apertura maggiore possibile per essere
contemporaneamente possente ed agevolante la deambulazione. L’ampiezza
della regione pettorale così proporzionata trova il connubio tra le
esigenze diametrali della funzionalità dell’effetto deterrente e quelle
dell’andatura sufficientemente redditizia in termini di facilitazione
dinamica, grazie ad una struttura architettonica non esagerata negli
elementi di stabilità. La larghezza del petto in tale percentuale rispetto
all’altezza al garrese, difatti, non propone delle accentuate condizioni
strutturali che producono la possibilità per il baricentro corporeo di
spostarsi troppo in verso laterale e, conseguentemente, ridurre i limiti di
progressione, già notevolmente elevati (impediti) nella pesante costruzione
brachimorfa del mastino napoletano. Il diametro trasversale del petto nel
raggiungere codesta proporzione si avvicina alla misura dell’altezza del
torace, ottenendo un rapporto strutturale che confeziona un blocco corporeo
anteriore dal ragguardevole equilibrio. La piattaforma antistante al torace,
proprio per questo, si presenta altrettanto equilibrata nell’ampiezza
della superficie, poiché il suo diametro verticale trova corrispondenza nel
suo diametro trasversale. L’ampia superficie del petto sfoggia la possente
dimensione grazie alla notevole copertura (apertura) in centimetri quadrati,
nonostante che il manubrio dello sterno sale fino alla punta della spalla.
La punta dello sterno situata allo stesso livello dell’articolazione
scapolo-omerale disegna una linea inferiore del torace che, anteriormente,
curva verso l’alto con una considerevole percentuale di pendenza. Una
risalita sternale siffatta contribuisce ad ogni condizione funzionale. Nella
versione statica, il manubrio dello sterno posizionato così alto consente
al petto di sopravanzare la punta della scapola e presentarsi prominente. Il
mastino napoletano in postura, perciò, propone la regione toracica con un
avampetto che, favorito dalla prominenza sternale, accentua la possanza
fisica. L’effetto deterrente aumenta in virtù di una più fiera prestanza
strutturale, sottoposta all’osservatore mediante l’ostentazione di un
substrato anatomico accentuato laddove (nella parte fisica anteriore) il
cane da guardia si mette in evidenza, quando affronta l’estraneo parandosi
davanti. Nella versione dinamica, durante la tipica andatura dinoccolata,
nel gettarsi in avanti e, conseguentemente, nell’abbassarsi anteriormente,
il mastino napoletano porta il manubrio sternale a posizionarsi più in
basso della punta scapolare. Il tratto anteriore dello sterno (risalente,
invece, mentre si trova nella versione statica), in tale situazione,
raggiunge una posizione orizzontale, quindi, parallela, sia al suolo
(superficie plantare), sia al dorso (superficie superiore del tronco).
L’andatura ottiene beneficio dalla possibilità del baricentro corporeo di
livellarsi durante la progressione, ossia di restare costantemente alla
stessa distanza dal terreno e proseguire senza dispersione dell’energia,
altrimenti insufficiente a far deambulare un pesante brachimorfo del genere.
La posizione creata dall’incedere dinoccolato, dove la linea superiore del
tronco viene allungata dal profilo superiore del collo e del cranio,
determina una lunghezza rettilinea continuativa del profilo sovrastante. Il
parallelismo del limite superiore del tronco copre uno spazio sottostante
maggiore, che causerebbe una minore potenza dinamica se non corrisposto da
una linea inferiore del torace parallela più a lungo e più avanti
possibile. Lo sterno risalente, infatti, è predisposto ad assumere la
posizione parallela, durante l’andatura dinoccolata, per cui trattiene la
pressione della forza anatomica superiore verso il basso, in modo che la
dinamicità sia espressione della potenza strutturale di un cane dalla forza
fisica immensa. La linea sternale abbassata allo stesso livello dal manubrio
al punto in cui si presenta staticamente rettilinea concentra in questo
tratto anteriore il peso corporeo cadente in avanti, senza disperdere
altrove la forza muscolare che serve a spostare una costruzione votata al più
alto indice di sviluppo fisico ai fini della mansione di cane da guardia
deterrente. La nota che termina questo aspetto funzionale vede lo sterno
siffatto mantenere invariata la distanza dal garrese al punto sternale più
basso pure durante il movimento, poiché, quando il manubrio raggiunge il
livello orizzontale, ottiene la medesima altezza toracica del tratto
verticale dietro al gomito. Le caratteristiche del petto si prestano
massimamente funzionali persino durante l’azione di presa. Il petto ampio,
muscoloso e con lo sterno risalente, al momento in cui il mastino napoletano
effettua la presa, è predisposto alla funzione di superficie d’impatto
nel modo più solido possibile. Applicando il morso troncante, poi, il petto
si antepone all’eventuale reazione avversaria, attutendo la forza
antagonista. Sul petto, in proposito, quando l’avversario si ribella alla
presa trova l’opposizione del peso corporeo del nostro molosso, in quanto
l’impatto del tronco si scarica sulla sua superficie antistante. L’ampia
regione pettorale, fornita di sterno con il manubrio rialzato e i muscoli
molto sviluppati, costituisce un substrato anatomico in grado di offrire una
piattaforma di contatto sulla quale il contrasto avversario può solo
infrangersi. Coda La base d’inserzione larga assicura un substrato
coccigeo molto sviluppato, secondo la forte ossatura che compone lo
scheletro del mastino napoletano. La coda cotanto spessore
all’attaccatura, appunto, deriva da un osso sacro fortemente sviluppato,
che è inserito, per correlazione anatomica, entro delle ossa coxali (ilio,
pube ed ischio) parimenti sviluppate, quindi robuste. La radice caudale
grossa è la conseguenza della base larga, per cui lo strato muscolare e
tegumentario che ricopre le forti vertebre coccigee confeziona uno spessore
adeguato alla groppa dotata di un diametro trasversale elevato. Lo sviluppo
della coda alla radice conferisce robustezza. La coda si mantiene robusta in
tutta la sua lunghezza, poiché si affusola solo leggermente verso
l’estremità. Considerando che la punta della coda raggiunge
l’articolazione del garretto, si evince che lo spessore è pressoché
uniforme. La circonferenza dell’appendice caudale, dunque, diminuisce
poco. Amputata a circa 2/3 della sua lunghezza consente di mantenerla dello
spessore più uniforme possibile. La conchectomia, pertanto, garantisce la
stessa coda forte dalla radice fino all’estremità artificialmente
ottenuta. L’eliminazione dell’ultimo tratto caudale favorisce la
migliore funzionalità del tratto che rimane, perché meno esposto ai
traumi. Significa che, scongiurando la possibilità di ferimenti, il mastino
napoletano adempie alle proprie mansioni senza essere menomato dal dolore
causato dalla coda traumatizzata. Qualsiasi motivo che possa portare al
ferimento dell’integro apice caudale, infatti, graverebbe sulla funzione
di cane da guardia e da presa. Se capitano delle condizioni pericolose per i
movimenti della coda durante il lavoro, ecco che il molosso partenopeo
avrebbe ridotte le sue potenzialità fisiche, guarda caso per un particolare
che nulla centra con le sue prestazioni funzionali e che è possibile
risolvere preventivamente. Occorre, infatti, assicurare al mastino
napoletano le migliori condizioni possibili. La coda conchectomizzata al 33
% della sua lunghezza, pertanto, rappresenta il margine di sicurezza su cui
eseguire un intervento artificiale preventivo a favore della funzionalità.
Il portamento dell’appendice caudale, caratterizzante sia la fase di
riposo, sia quella in azione, è condizionato dall’integrità e dalla
conchectomia. La coda portata pendente a riposo, se integra, per via della
lunghezza tale da raggiungere il garretto, può presentare una forma a
scimitarra più allungata e, quindi, accentuata. Una simile forma fa sì che
la coda sia meno robusta, perché il tratto terminale più lungo e curvato
perde l’efficacia ossea, a causa delle vertebre coccigee prive
d’uniformità lineare, il più possibile lungo tutta la longitudine.
Aggiungendo, pertanto, al tratto meno dotato di spessore pure una minore
robustezza, ecco che aumentano le possibilità traumatizzanti. La coda
conchectomizzata, invece, presenta meno vertebre curvate, per cui è più
robusta, in quanto con una percentuale maggiore di linearità uniforme,
ossia dallo spessore uguale dall’inizio alla fine. Il portamento
orizzontale o poco più alto del dorso in azione, sia durante il movimento,
sia in fase d’eccitazione, ottiene dalla conchectomia un maggior effetto
funzionale. Oltre alle stesse motivazioni della coda a riposo, l’appendice
caudale più corta favorisce un portamento più facilitato, perché i
muscoli che la sollevano faticano meno, grazie al minor peso da rialzare. La
coda raccorciata, poi, conferisce un senso di maggior compattezza quando è
sollevata, poiché c’è un minor prolungamento del tratto anatomico più
sottile della corporatura del cane. Un pesante brachimorfo, infatti, perde
efficacia deterrente dalla presenza di un’appendice poco edificante la
massa corporea straordinariamente sviluppata. Un altro indice favorito dalla
conchectomia è quello che rende la coda più ferma, quando il mastino
napoletano compie i piccoli movimenti mentre si para davanti al
malintenzionato, per cui incute maggior timore, grazie ad un’appendice
raccorciata, che è meno indicata a spostarsi lateralmente. Ciò porta
l’osservatore a capire di trovarsi di fronte ad un cane da guardia deciso,
che manifesta fermezza caratteriale tramite la coda immobile. Ultimo
elemento funzionale a favore della coda conchectomizzata deriva dalla
considerazione che il mastino napoletano non è un cane dotato di
particolare dinamicità, per cui non ha bisogno di un’appendice caudale
talmente lunga da fungere come un timone, che aiuta continui e repentini
spostamenti. Il compromesso sull’amputazione dell’ultimo terzo
vertebrale arriva a perdere la caratteristica di timone, praticamente
inutile nel pesante molosso partenopeo, ma guadagna nelle altre
facilitazioni funzionali più indicate per questo cane. La stessa funzione
di presa trae ausilio dalla coda amputata, poiché diventa un punto
d’appoggio più solido e forte durante la concitazione della lotta, quando
il mastino napoletano tenta il morso o quando il morso è già assestato,
altrimenti l’appendice caudale integra è meno predisposta ad appoggiarsi
ed ostacola l’intervento. Arti La funzione di queste appendici nel mastino
napoletano favorisce le condizioni di stabilità, piuttosto di quelle
dinamiche. Ragion per cui tutto l’apparato degli arti assume delle
caratteristiche consone alla pesante costruzione brachimorfa. Gli arti
posteriori, quanto quelli anteriori, presentano lo stesso sviluppo
muscolare, altrimenti la disparità anatomica riduce le potenzialità
funzionali. Arto anteriore La verticalità riguarda tutta la composizione
dell’arto toracico, non solo il tratto dal gomito a terra (avambraccio,
carpo, metacarpo e piede). Ciascun singolo segmento, pure nel tratto
superiore al gomito (spalla e braccio), dunque, si trova in linea dritta,
pur se a ciò risponde totalmente l’appiombo tirato dal davanti, rispetto
all’appiombo tirato lateralmente, altresì, parzialmente e distintamente
allineato. L’arto anteriore verticale, appunto, è completamente
identificato dall’appiombo visto di fronte; mentre, visto di profilo, i
punti di verticalizzazione cambiano prospettiva. L’appiombo visto di
fronte trova la perfetta linearità dall’apice della scapola fino a terra.
Significa che i punti anatomici facilitanti il reperimento della verticalità
frontale dell’arto anteriore vedono la punta della spalla, la punta del
gomito e il tratto al di sotto del gomito posti sulla stessa linea
perpendicolare all’orizzonte (suolo), dall’inizio alla fine. La linea
verticale dell’intera lunghezza dell’arto toracico, vista di fronte,
perciò, è parallela al piano mediano che attraversa longitudinalmente il
corpo. I punti di repere frontali della verticalità, conseguentemente, si
trovano posizionati centrali al diametro trasversale dell’arto sottostante
al gomito. Ogni deviazione dall’appiombo visto di fronte pregiudica la
regolarità funzionale. La gravità dell’appiombo deviato, però, è
graduale a seconda dei casi. Considerando che le punte della spalla e del
gomito dividono il tratto dell’arto toracico sottostante in due parti
uguali, in un pesante brachimorfo come il mastino napoletano, dove la
stabilità prende vantaggio sulla dinamicità, le deviazioni verso
l’esterno, tuttavia, si rivelano meno penalizzanti di quelle verso
l’interno. Nonostante che l’appiombo perduto esternamente è meno grave
rispetto a quello rivolto internamente, occorre distinguere quale di queste
deviazioni esterne procura minori svantaggi. La stabilità, certamente
aiutata dalla base d’appoggio più ampia, trova dalla deviazione laterale
dell’arto anteriore nel tratto terminale la condizione che aumenta il
quadrilatero di sostegno. Ragion per cui l’appiombo mancato frontalmente
reca meno danni quando è (solo) il piede a deviare all’esterno. La
copertura di spazio aumenta dove serve, cioè presso a terra (sulla base
d’appoggio), fornendo un quadrilatero di sostegno maggiorato dal piede che
prende terreno allontanandosi dal piano mediano longitudinale del corpo. Il
difetto dei piedi anteriori deviati all’esterno (mancinismo), però,
rappresenta pur sempre una deficienza funzionale, anche in situazione di
staticità. La postura del mastino napoletano, per la conseguenza
dell’elevato peso corporeo, è usurante proprio sugli arti deputati a
sostenerlo. Gli arti anteriori, per di più, fungendo da colonna portante
dell’intera impalcatura scheletrica del cane, sono sottoposti ad una
pressione verso il basso maggiormente gravosa più il blocco corporeo della
metà anteriore è pesante. Va da sé che la perpendicolarità frontale
dell’intero arto toracico scarica a terra il peso sovrastante
uniformemente dall’apice della scapola fino ai cuscinetti digitali e
plantari. Il peso perpendicolare, in presenza di mancinismo, invece, non
percorre tutto l’arto, ma esce in corrispondenza del metacarpo. Il piede,
conseguentemente, non aiuta il sostenimento della pressione scaricata, per
cui il peso corporeo non è distribuito equamente sulla base plantare, bensì
grava sul segmento terminale in modo disomogeneo, usurando soltanto le dita
interne, che ricevono parte dello scaricamento e vengono trascinate a
rovesciarsi. L’appiombo visto di profilo, come detto, è solo parziale e
distinto, poiché i segmenti che compongono l’arto toracico, nella
posizione laterale, non sono tutti disposti verticalmente. La verticalità
dell’avambraccio, difatti, è l’unica ad interessare l’appiombo
laterale. Gli altri punti di repere del profilo dell’arto anteriore
rilevano la perpendicolarità degli altri segmenti. L’appiombo determinato
dalla punta della spalla trova perpendicolare il piede al limite delle dita;
mentre, il margine posteriore dell’apice della scapola trova
perpendicolare il gomito. L’arto toracico visto di profilo, sulla base
dell’avambraccio verticale, nonché delle due tangenziali che posizionano
paralleli i segmenti situati anteriormente e posteriormente, pertanto,
presenta tre situazioni lineari. Ogni deviazione da ciascuna di tali
linearità procura delle deficienze funzionali. Il concetto di stabilità,
in questi casi, è aggravato comunque, anche se la deviazione è esterna.
Gli arti anteriori che hanno l’avambraccio fuoriuscito dalla verticale,
fino a posizionare il piede troppo avanti, gravano sulla linea dorsale, che
riceve tutto il peso corporeo e lo scarica in basso, senza trovare adeguato
sostegno. Viceversa, diminuisce la base d’appoggio a danno della stabilità.
Deviando l’appiombo dell’avambraccio, conseguentemente, si spostano i
punti degli appiombi tangenziali, perdendo la loro perpendicolarità. Tutti
i punti di verticalizzazione visti di profilo, così, non sono più
allineati. Mai come per l’appiombo laterale, quindi, la verticalità,
tanto dell’avambraccio, quanto della posizione del piede rispetto alla
punta della spalla e del gomito rispetto al margine posteriore della
scapola, assume imprescindibile precisione. L’ossatura dell’arto
toracico offre le più funzionali condizioni di sostegno se robusta e
proporzionata alla mole. La robustezza e la proporzione ossea rientra nel
limite dello sviluppo non oltrepassante lo spessore ancora privo di
spongiosità. L’osso dalla sezione spongiosa, d’altronde, non solo perde
robustezza, ma assume una dimensione sproporzionata, peraltro inutile, pur
se di diametro maggiore. Lo sviluppo osseo dell’arto anteriore si presta
davvero funzionale quando è robusto, al punto di dimostrarsi in grado di
sostenere il peso corporeo senza cedimenti in alcun segmento dell’arto
stesso, come in nessun’altro punto anatomico. La proporzione ossea alla
mole e la relativa robustezza degli arti toracici evidenziano altrettante
caratteristiche nell’intera struttura architettonica. Ragion per cui lo
sviluppo osseo è omogeneo al resto dell’impalcatura scheletrica. Gli arti
anteriori, nel manifestarsi come colonne di sostegno, espongono la robusta
ossatura nel tratto sottostante al gomito, per cui, prevalentemente, è lo
spessore dell’avambraccio ad esprimere la proporzione alla mole, in grado
di confezionare lo sviluppo adeguato. Spalla Lunghe circa 3/10
dell’altezza al garrese, adempiono all’ampiezza della base del collo.
L’uscita del collo dalle spalle, poi, trova il corretto portamento grazie
all’inclinazione scapolare di 50-60 gradi sull’orizzontale. La spalla
così conformata si presta a coprire lo spazio che gli è riservato. Tale
lunghezza risponde ad un torace dal diametro verticale molto sviluppato,
considerando pure che la posizione della scapola è abbastanza inclinata,
per cui fa perdere effettivamente una parte della sua virtuale disponibilità
longitudinale. Variando da un’inclinazione media fin quasi al massimo
possibile, stante la notevole altezza toracica, la lunghezza pari al 30 %
dell’altezza al garrese consente di mantenere lo stesso spazio nella
verticalità del costato. Qualunque sia la gradazione scapolare, infatti,
una lunghezza del genere ottiene una posizione pur sempre vantaggiosa. La
spalla di codesta lunghezza e lo sviluppo osseo, nonché quello muscolare
direttamente derivato, trova il compromesso funzionale proprio per
soddisfare lo spazio disponibile nell’altezza del torace. Non potendo
essere più corta, pena l’inadeguatezza di cui appena detto, la spalla non
soddisfa soltanto le condizioni di forza dell’arto toracico, soprattutto,
nell’adiacenza al costato, oltre che aiutando la colonna di sostegno, ma
si rende predisposta pure agli effetti della deambulazione. Il mastino
napoletano, grazie alla spalla lunga nella percentuale suddetta, dunque,
dispone della possibilità di muoversi efficacemente, nonostante la mole. Il
movimento si ottiene meglio di quanto un pesante brachimorfo possa
effettuare. L’obliquità della scapola, inoltre, consente all’arto di
raggiungere un buon allungo. La variazione di dieci gradi sull’orizzontale
riflette la disponibilità dell’angolo scapolo-omerale di aprirsi o
chiudersi di quel tanto che basta per adeguarsi all’altezza toracica, più
o meno verticalmente sviluppata. L’angolatura dell’articolazione tra la
scapola e l’omero rientrante nei 105-115 gradi, difatti, consente alla
spalla di posizionarsi obliqua a seconda della discesa toracica.
L’inclinazione della scapola ottimale, tuttavia, è dedotta nella
posizione intermedia, vale a dire, a 55 gradi. Consegue che l’angolo
scapolo-omerale, possibilmente, deve assestarsi in un’angolazione
altrettanto media. L’obliquità media mantiene nella spalla delle
condizioni strutturali ancora efficaci alla forza muscolare di un pesante
brachimorfo. La muscolatura ben sviluppata, quindi, è depositaria delle
possibilità di sprigionare ugualmente la potenza adeguata al mastino
napoletano. I muscoli lunghi e ben divisi testimoniano proprio lo sviluppo
derivato dalla lunghezza della scapola, ancorché entro un margine di
contrazione, che li fa intravedere suddivisi, in quanto, comunque, dotati di
una sezione consistente. Braccio Le condizioni del braccio, praticamente,
sono identiche a quelle della spalla. L’omero segue lo stesso decorso
della scapola, sia per la lunghezza, sia per l’inclinazione. La lunghezza,
difatti, corrisponde perfettamente. L’inclinazione altrettanto, tranne che
per una lieve differenza, consistente in una minore variazione. L’obliquità
omerale di 55-60 gradi sull’orizzontale, variando di cinque gradi,
rispetto ai dieci gradi scapolari, tuttavia, determina una sua posizione
piuttosto stabile, che si riflette più significativamente sull’angolo
composto dall’unione con il segmento superiore. L’angolatura
dell’articolazione scapolo-omerale, pertanto, trova nella minima
variazione del segmento inferiore la possibilità di fissarsi con
precisione. Assommando i limiti entro i quali variano i due segmenti
correlati, deriva che l’angolo tra l’omero e la scapola raggiunge una
chiusura fino a 105 gradi e un’apertura fino a 120 gradi. Si evince, però,
che l’apertura massima diminuisce la funzionalità dell’angolo. Stante
l’angolo retto come quello universalmente più efficiente, ecco che pure
il mastino napoletano usufruisce dei vantaggi forniti da una gradazione più
vicina a quella ideale, peraltro utopica in tutte le razze, se non in quelle
anacolimorfe (ad arti corti; tipo bassottoide). La maggiore inclinazione
possibile per l’omero, unitamente alla stessa situazione scapolare,
determina il loro angolo in 105 gradi, che rappresenta quello più vicino ai
90 gradi ideali. Nel mastino napoletano, tuttavia, quest’angolo è
ritenuto come il confine della massima chiusura, giacché posto al limite
della possibile combinazione tra l’obliquità dei due segmenti. Vista la
massima variazione della scapola, l’omero è il solo segmento che non fa
chiudere troppo l’angolo in oggetto. L’angolatura a questo limite di
chiusura favorisce maggiormente la deambulazione, per cui un cane come il
nostro molosso, pur facilitato nel movimento, comunque, perde qualcosa verso
quanto può dare in forza. Mantenuto il braccio nell’inclinazione più
vicina all’ideale universale, con la variazione della spalla nella
gradazione media, si raggiunge l’angolo di 110 gradi, quale combinazione
derivante dall’identica posizione dei due segmenti. Questo fattore, tra
l’altro, fa sì che il gomito sia perfettamente perpendicolare al margine
posteriore dell’apice scapolare, secondo la linearità determinante
l’appiombo visto di profilo, nonché tangenziale alla verticalità
dell’avambraccio. Altro vantaggio dell’angolo di 110 gradi, nonché
della medesima obliquità della scapola e dell’omero, è legato alla loro
eguale lunghezza. Ottengono la stessa inclinazione, infatti, perché lunghi
uguali, per cui pongono i propri limiti posteriori lateralmente
perpendicolari. La spalla raddrizzata fino a 60 gradi, con il braccio a 55
gradi, determina l’angolo di 115 gradi, ancora accettabile, per via della
combinazione che fornisce parimenti capacità di potenza e di deambulazione.
Resta, comunque, la possibilità di ottenere l’equo connubio tra le
caratteristiche di forza e di locomozione, consone al mastino napoletano,
grazie alla media obliquità di entrambi i segmenti. L’angolo
scapolo-omerale, in tal caso, si assesta a 112,5 gradi. Le variazioni
dall’angolatura media assumono valore di potenza più si allontanano
aprendosi; viceversa, più si chiudono, assumono valore di progressione
locomotoria. Agli effetti della funzionalità nella locomozione, stante il
movimento a pendolo, che effettua l’arto anteriore, il primo segmento
superiore è quello determinante il maggior allungo, per cui, più degli
altri, offre il massimo vantaggio se è lungo ed obliquo, anche se il
segmento sottostante non dispone delle stesse condizioni. Deriva che la
massima inclinazione della spalla (50 gradi), accompagnata dalla minima
inclinazione del braccio (60 gradi), lo stesso, presenta quell’angolo di
110 gradi, equamente funzionale nelle varie situazioni. La rilevante
muscolatura di cui è fornito il braccio è indispensabile, quanto quella
della spalla. Gomito Non sono troppo serrati alla parete del costato, grazie
al torace ben conformato. Se lo sono, con un costato del genere, non si
presentano paralleli al piano mediano del corpo. Girati verso il costato ben
conformato, nemmeno si presentano verticali sulla linea d’appiombo vista
di fronte. Troppo chiusi, pur paralleli e verticali, significa che il torace
oltrepassa il limite diametrale trasversale. Sono coperti di pelle
abbondante e rilassata, secondo lo sviluppo tegumentario generale. La pelle
accumulata sul gomito funziona da protezione ad un punto anatomico
sottoposto ad usura, quando un pesante cane, qual’è il mastino
napoletano, si accuccia con lo sterno a terra. Protetto il gomito dalla
pelle abbondante e rilassata, cioè, in condizione di aumentare lo spessore,
il mastino napoletano non è debilitato dai possibili traumi, per cui
adempie al suo lavoro senza le sofferenze del caso. Avambraccio Lungo circa
quanto il braccio, per cui quanto la spalla, si proporziona componendo
l’arto anteriore come terzo segmento uguale ai due superiori, affinché la
funzione pendolare, durante il movimento, anche inferiormente, usufruisca
della stessa portata. La lunghezza pari al 30 % dell’altezza al garrese,
pertanto, offre l’avambraccio consone al miglior funzionamento
dell’apertura angolare tra i tre segmenti, in modo che l’allungo prenda
lo stesso spazio d’estensione fornito dalle due lunghezze sovrastanti. La
proporzione acquisita dalla paritetica lunghezza dona al mastino napoletano
un avambraccio dotato di muscolatura altrettanto ben sviluppata, pur se si
evidenzia più asciutta, in questo tratto, perchè si nota maggiormente
l’ossatura robusta. La perfetta verticalità dell’avambraccio, oltre a
prestarsi da simbolo della correttezza dell’appiombo (sia visto di fronte,
sia visto di profilo), è indispensabile a fungere da asse portante della
colonna di sostegno rappresentata dall’intero arto. L’avambraccio
verticale, con la robusta ossatura e la muscolatura ben sviluppata, esprime
la potenza strutturale del mastino napoletano. Questo segmento, infatti,
attraverso il suo spessore e la sua circonferenza, è deputato ad
evidenziare la consistenza ossea dell’intera impalcatura scheletrica. Il
molosso partenopeo, come pesante brachimorfo, possiede un avambraccio
sviluppato, al punto che, dal suo confronto, consente di valutare la
proporzione dell’ossatura con la massa corporea. L’avambraccio, infine,
è il tratto anatomico che fa rilevare se il mastino napoletano offre
maggiori o minori caratteristiche di potenza. L’avambraccio potente, in
ogni caso, perfino agli effetti del movimento, si presta maggiormente
funzionale, stante il peso corporeo da trasportare. La massa voluminosa del
tronco, in situazione di staticità, è sorretta, efficacemente, se
l’avambraccio è dotato delle potenti caratteristiche suddette. Carpo
Seguendo l’avambraccio, è posizionato sulla stessa verticalità. Dotato,
pure, dello stesso sviluppo, per quanto riguarda il volume, si presenta
altrettanto asciutto. Il carpo liscio evidenzia che non ha sporgenze di
sorta. Commisurato ben largo, si proporziona allo spessore del segmento
superiore. La larghezza del carpo sottolinea che le ossa deputate a comporlo
sono disposte perfettamente allineate. La serie delle ossa situate nello
spazio dall’interno all’esterno, quindi, forniscono il carpo ben largo.
Le condizioni succitate favoriscono la sua funzione di cerniera, nonché
contribuiscono ad irrobustire l’arto in situazione statica. L’importanza
della conformazione del carpo deriva dal dimostrarsi efficace nel sostenere
il peso corporeo, congiungendo all’avambraccio, senza difficoltà, il
metacarpo inclinato. Si tratta di un apporto funzionale ottenuto se il carpo
è in possesso delle caratteristiche suddette, poiché, in tal punto, la
difficoltà di bloccare l’arto aumenta per l’obliquità del segmento
sottostante. Metacarpo La piattezza lo rende largo quanto il carpo, mentre,
non è altrettanto spesso. La sua faccia anteriore, quindi, si presenta ben
larga, quanto i segmenti superiori. Il metacarpo piatto, nell’appiombo
visto di fronte, segue la verticalità dell’avambraccio, poiché, visto di
profilo, appunto, non è dello stesso spessore. L’appiombo laterale,
infatti, non può dividere il metacarpo, come l’avambraccio, nemmeno se
dritto. Inclinato, per di più, fa uscire la linea d’appiombo laterale,
che divide l’avambraccio, dalla faccia posteriore, invece di farsi
completamente attraversare. L’inclinazione di circa 70-75 gradi
(sull’orizzontale), vale a dire, 15-20 gradi spostato dalla verticalità
dell’avambraccio, in movimento, consente al metacarpo di esprimersi
secondo il peso da attutire, senza perdere le capacità di sostenimento.
L’obliquità gli consente di effettuare la funzione di molleggio, che
nella gradazione sopraindicata è sufficiente ad attutire il peso corporeo
del mastino napoletano, scaricato più abbondantemente a terra, durante il
movimento. Il metacarpo posizionato obliquamente, in posizione statica,
perde parte della forza di sostenimento, ma nel compromesso obbligato per
soddisfare il molleggio del movimento, trae il massimo vantaggio dalla
minima perdita possibile e giustificata. Lungo circa 1/6 del tratto
dell’arto sottostante al gomito, trae da questa proporzione il diametro
verticale che gli consente di prestarsi funzionale, soprattutto, in
stazione, nonostante l’obliquità. Anche in movimento la lunghezza pari a
circa il 16,5 % dell’altezza al gomito agevola la flessibilità. Il
gravoso scaricamento di peso, che aumenta con la velocità dell’andatura,
trova l’opposizione più efficace, poiché flette nella misura meglio
dotata di molleggio, senza rischiare sofferenze di sorta, escluse dal
metacarpo costruito così fortemente. Piede (anteriore) La forma rotonda
manifesta nel segmento terminale quanto l’arto presenta superiormente,
soprattutto, fino al gomito. La sezione dell’ossatura dei segmenti
sovrastanti, soprattutto, quella dell’avambraccio, appunto, si presenta di
forma similare al piede, ossia circolare, pur se non dalla circonferenza
identica. L’arto trae vantaggio dal piede rotondo, poiché questa
conformazione riceve completamente il peso corporeo pervenuto lungo tutto
l’avambraccio, in quanto occupa lo spazio che serve per scaricarlo tale e
quale, stante la sezione similare, in modo da non disperdere nulla della
forza prodotta. Il piede rotondo, infatti, concentrando in un punto
circolare il peso scaricato a terra, usufruisce della stessa forza per
ritornarla di sopra ed opporla alla potenza sovrastante. L’arto, così,
regge la massa corporea con identica forza antagonista, senza cedimenti
strutturali, che fanno spendere molte energie muscolari, solo per mantenere
la posizione statica. La dispersione di parte della forza scaricata, per via
dell’inclinazione del metacarpo, in quanto non discende perpendicolare,
grazie al piede rotondo, diminuisce (recupera) qualcosa, perché concentra
in un limite diametrale dal raggio uguale in tutta la circonferenza plantare
la potenza non dispersa dal segmento superiore. La rotondità del piede
annovera le dita arcuate, che si prestano meglio ad essere robuste. Sono,
pertanto, indicate per adempiere al sostenimento senza accusare debolezze.
Le dita arcuate aumentano la dimensione volumetrica del piede. Il piede
voluminoso è ancora più adatto a sorreggere un pesante brachimorfo. La
forma voluminosa e rotonda è data dalle dita ben unite fra loro. Il piede
così è compatto, quindi, forte. I cuscinetti plantari adempiono alla loro
funzione se sono asciutti e duri. L’asciuttezza del cuscinetto lo rende
della stessa altezza delle dita, in modo che la pianta del piede appoggia
perfettamente. La durezza serve al cuscinetto a non accusare lo
schiacciamento del peso corporeo e a sopportare le asperità del terreno.
L’appoggio del piede, così, non è doloroso. Le unghie ricurve sono
forti, per cui offrono ausilio alle dita durante l’appoggio. La
pigmentazione, sia dei cuscinetti plantari, sia delle unghie, è indice di
maggior robustezza delle parti ricoperte, nonché di sana costituzione
generale. Arto posteriore Sono robusti e potenti, in modo da funzionare non
solo come generatori dell’andatura, ma pure come colonna di sostegno.
Proporzionati alla mole, evidenziano la robustezza e la potenza attraverso
l’ossatura, soprattutto, denotata dal metatarso, nonché dalla
muscolatura, a sua volta, denotata dalla coscia. Assicurano la dovuta
spinta, oltre al sostenimento, non da meno posizionandosi in appiombo.
L’appiombo visto da dietro rileva la verticalità di tutto l’arto.
L’appiombo visto di profilo vede verticale il metatarso e il piede, posto
con le dita perpendicolari alla punta della natica. Coscia Resa larga dalla
suaccennata muscolatura denotata in questa regione. La larghezza della
coscia deriva dai muscoli grossi ivi contenuti. La loro disposizione,
quindi, è allargata dallo spessore consono ad un pesante brachimorfo, che
sviluppa la massima forza muscolare. Nonostante che sono grossi, i muscoli
della coscia si presentano nettamente divisi. La netta divisione muscolare
è evidenziata dalle salienze sottocutanee. I muscoli salienti anche sotto
la pelle spessa del mastino napoletano, appunto, sottolineano quanto sono
grossi e divisi. La coscia lunga 1/3 dell’altezza al garrese si presenta
come il tratto maggiore dell’arto pelvico. Questa lunghezza, tra
l’altro, serve a posizionare in basso il ginocchio, in modo che svolga la
propria funzione libero da intralci. La coscia lunga, infatti, spostandosi
in avanti (chiudendo l’angolo coxo-femorale), consente al ginocchio di
assumere una posizione non ostacolata, perciò più redditizia, quando in
alto si avvicina alla linea inferiore del tronco. Solo se lunga il 33 %
dell’altezza al garrese riporta lo sviluppo muscolare suddetto. Lo spazio
longitudinale del femore, così, contiene i muscoli grossi al punto che
allargano la coscia, per renderla diametralmente proporzionata alla
lunghezza della groppa. Il femore lungo e la grossa muscolatura, perciò,
favoriscono la miglior collaborazione con la regione sopra confinante.
L’inclinazione di circa sessanta gradi sull’orizzontale è la condizione
indispensabile per ottenere l’ideale angolo coxo-femorale di novanta
gradi, stante la groppa obliqua a trenta gradi. Il funzionamento
dell’articolazione tra il coxale (ilio, pube e ischio) e il femore,
difatti, trae dal loro angolo retto il massimo vantaggio. Il movimento
pendolare del femore gode della più agevole libertà d’azione, derivata
dalla sua perpendicolarità rispetto al coxale. Il femore perpendicolare
all’osso ove si articola, in questo caso, ovviamente, migliora l’effetto
del pendolo, piuttosto di una posizione più verticale, che perde efficacia
aprendo l’angolo articolare in oggetto. La posizione obliqua della coscia,
nella perpendicolarità con il coxale, trova anche il supporto migliore
quando il mastino napoletano è fermo. Il vantaggio statico, anzitutto,
deriva dalla facilitazione di sorreggere il peso corporeo gravante sul
posteriore, grazie all’aderenza perfetta (in assenza di displasia) della
testa del femore inserita nell’acetabolo. Lo scaricamento del peso verso
il basso, difatti, usufruisce del totale trasferimento dalla groppa alla
coscia tramite l’adesione ossea centrale. Anche se il peso scaricato nella
coscia non prosegue del tutto verticale, il largo sviluppo muscolare di
questa regione è in grado di sopportare la maggiorata difficoltà causata
dall’inclinazione. Trasferendo il peso ai segmenti sottostanti, si scarica
a terra nel modo più vicino possibile alla verticale, dato che la coscia
obliqua posiziona la serie delle angolature inferiori, finché il metatarso
si trova vicino al punto più arretrato del tronco (l’appiombo calato
lateralmente dalla natica sfiora le dita del piede). Il femore più
raddrizzato pone il treno posteriore troppo indietro dalla costruzione
rettangolare, al punto di allungare la base longitudinale d’appoggio, ma
il quadrilatero di sostegno, pur ampliato, perde efficacia, poiché
l’aumento della distanza tra il piede e il tronco non fa disporre della
colonna di sostenimento sotto al corpo, laddove si scarica il peso. La
coscia dritta, perciò, spostando i segmenti inferiori, trova il vuoto
sottostante, che non sorregge lo scaricamento nel tratto terminale,
aggravando la difficoltà del treno posteriore. Gamba Appena meno lunga
della coscia, favorisce la posizione del piede con le dita perpendicolari
alla linea verticale calata dalla punta della natica; altrimenti, se più
lunga, il tratto terminale dell’arto finisce fuori di sé e la funzione da
colonna di sostegno perde efficacia, perché si allontana troppo dal tronco.
Stante la coscia più lunga e il piede così posizionato, con codesta
lunghezza, la sua inclinazione, nell’assestarsi sui 50-55 gradi
(sull’orizzontale), consente la congiunzione tra il femore e il tarso
entro la distanza che agevola l’appoggio, giacché tutti i segmenti del
treno posteriore sono situati a ridosso della linea d’appiombo vista di
lato. Significa che, tra la coscia antistante e il metatarso retrostante
(dalla punta della natica), la gamba è al centro dell’appiombo, per cui
rappresenta il segmento in grado di fornire l’equilibrio alla metà
posteriore del tronco. La tibia, inoltre, secondo la lunghezza e
l’obliquità che possiede, si contrappone al femore nel modo più
appropriato per fungere da ponte solidificante la parte superiore
dell’arto. Obliqua al punto da presentarsi antagonista quasi sulla stessa
gradazione, praticamente, effettua l’appoggio all’esatto contrario. Il
sostegno al femore, da parte della tibia, pertanto, deriva dalla forza
ottenuta dall’opposizione esercitata pressochè paritetica. Meno dritta
del segmento sovrastante, si presta verso il femore, seppur lievemente,
tendendo ad una posizione di quel poco più d’orizzontale che le consente
di avere un minimo d’effetto da piedistallo. Questo fa sì che la tibia,
seppur appena percettibilmente, consente al femore di assumere il minimo
cenno di perpendicolarità rispetto ad essa. L’accenno perpendicolare del
femore sulla tibia giova anche agli effetti della deambulazione. Il
substrato anatomico della gamba molto sviluppato, in quanto dotato di forte
ossatura e ben evidente muscolatura, è sintonizzato allo sviluppo generale,
nonché si presenta in connubio con la coscia. Ginocchio Le inclinazioni del
femore e della tibia compongono l’angolo del loro incontro all’incirca
sui 110-115 gradi, dimostrando la precisione delle gradazioni dell’arto
pelvico. L’angolatura dell’articolazione femoro-rotuleo-tibiale più
aperta di quella coxo-femorale non schematizza il treno posteriore entro
delle composizioni tutte rette, che risultano controproducenti, sia alla
statica, sia alla dinamica. I segmenti ossei perpendicolari fra loro,
infatti, marcando troppo l’apparato locomotore propulsivo, modificano la
sua regolare posizione, soprattutto, rispetto al tronco. L’apertura
dell’angolo femoro-tibiale trae i vantaggi summenzionati nel precedente
paragrafo (gamba) se assestata entro i cinque gradi di variazione,
determinati dall’inclinazione della tibia tra i 50 e i 55 gradi. La
modifica del ginocchio verso un’apertura sempre di più maggiore
dell’angolo retto, altrettanto come quelle sempre più vicine a novanta
gradi, non giova alla funzione dell’arto pelvico. Il ginocchio troppo
aperto rende il treno posteriore impalato, per cui, in movimento, perde
spinta; mentre, in stazione, perde l’equilibrio, poiché finisce troppo
avanzato (sotto di sé, ossia sotto il tronco). Garretto Rispetto alla
gamba, fa risultare molto lungo il metatarso, poiché è posizionato alto.
La sua altezza, nel raggiungere all’incirca i 2,5/10 dell’altezza al
garrese, appunto, determina l’incontro con la tibia alquanto rialzato dal
suolo, in modo che tale segmento osseo superiore si colloca con
l’inclinazione congeniale. L’angolo tibio-tarsico di 140-145 gradi,
perciò, è anche la conseguenza del garretto situato a distanza non
eccessiva dal ginocchio a livello verticale (altezza al garretto poco
inferiore all’altezza al ginocchio). L’angolatura dell’articolazione
della tibia sul tarso, pertanto, trae i vantaggi descritti in precedenza
grazie alla combinazione con il garretto alto, che annovera il segmento
sottostante (unico tratto dell’arto posteriore perpendicolare al terreno)
lungo al punto di prestarsi sufficiente, sia in movimento, sia da fermo. Il
garretto situato distante dal suolo presenta lunga la leva che, appoggiando
a terra, sposta (spinge) il cane in avanti, durante la deambulazione.
L’appiombo del garretto, poi, che dispone del lungo tratto verticale verso
terra, sostiene il peso corporeo nel modo migliore. La funzione
d’appoggio, quindi, si giova della sua distanza più lunga possibile, che
svolge il compito da colonna di sostegno, tanto più efficacemente quanto
l’altezza al garretto è maggiore, tuttavia, senza che il segmento
sottostante perda robustezza. Il rapporto con la lunghezza della gamba
considerato tale da essere definito “molto lungo”, in realtà, riguarda
una lunghezza relativa, poiché quella effettiva vede la misura in oggetto
rapportarsi minore di circa il 5-6 % rispetto al segmento superiore.
L’altezza alla punta del garretto che misura il 25 % dell’altezza al
garrese, infatti, differisce dei punti percentuale suddetti, giacché la
gamba di poco inferiore al 33 % (dello stesso rapporto) è ben più lunga.
Metatarso Lungo circa 1/4 dell’altezza al garrese, corrisponde alle
precedenti considerazioni elargite sul garretto. Altrettanto dicasi per
l’appiombo. La sua perfetta posizione verticale, in effetti, è
indispensabile alla più vantaggiosa funzionalità. Tanto per la dinamicità,
quanto per la staticità, la robustezza e l’asciuttezza assicurano il suo
più efficace servizio. Asciutto denota la consistenza ossea. Il substrato
osseo consistente, conseguentemente, si presenta robusto. La forma quasi
cilindrica agevola l’appiombo, poiché lo scaricamento verso terra del
peso corporeo avviene ben distribuito in tutto il suo spessore. Il metatarso
cilindrico, inoltre, è garante della propria robustezza. Gli eventuali
speroni, però, interrompono il manifestarsi della forma a cilindro, ma quel
che più conta è la loro superflua presenza, non certo vantaggiosa. Ragion
per cui vanno amputati. Piede (posteriore) Pressoché identico in tutto a
quello anteriore (stesse caratteristiche di forma, dita, cuscinetti ed
unghie), tranne che per la dimensione. Più piccolo del piede anteriore
equivale a meno voluminoso. La minore voluminosità, tuttavia, non è tanto
differente al punto da risultare troppo evidente. Deriva dal potenziale
minor sviluppo in spessore dell’arto pelvico rispetto a quello toracico.
L’apporto funzionale, però, non ne risente. La sua base plantare,
praticamente, effettua pari prestazioni di copertura sul terreno. La
funzione di staticità non è ridotta; mentre, quella dinamica ottiene una
buona dose di spinta, dato che la presa di terreno del piede propulsivo è
quasi uguale alla base plantare del piede dell’allungo, che prende
l’appoggio. Andatura La caratteristica tipica della razza espressa in
movimento è sottolineata durante il passo. Il mastino napoletano, infatti,
si muove camminando dinoccolato. Si tratta dell’andatura simile a quella
dell’orso. Come in questo animale selvatico, anche nella nostra razza si
manifesta per via della struttura voluminosa e pesante. L’incedere è
appesantito, al punto che si muove lentamente. Il passo lento è il meno
dispendioso d’energia, specie per muovere un brachimorfo dalla consistente
impalcatura scheletrica. L’andatura al passo è adottata negli spostamenti
di routine, che il mastino napoletano esegue durante la perlustrazione del
territorio di competenza, sottoposto alla sua sorveglianza. Sprecando poca
energia, mantiene integre le sue potenzialità difensive, quando avviene
l’improvvisa scoperta dell’intruso, sul quale bisogna procedere
all’attacco, nel pieno delle disponibilità di forza. L’incedere
dinoccolato, inoltre, anche in movimento, presenta l’effetto deterrente
della struttura architettonica voluminosa. La lentezza del passo, difatti,
propone la maestosità della costruzione da pesante brachimorfo. La
caratteristica dell’andatura dinoccolata, quindi, accentua il senso
dell’appesantimento strutturale, che incute ancora più timore di quanto
manifestato da fermo, per cui assume la connotazione di un valore aggiunto
nella mansione di cane da guardia, dapprima, agevolato dalla funzionalità
ottenuta dall’aspetto deterrente. L’intervento del mastino napoletano,
che si presenta lento ed appesantito nei movimenti, poi, per piazzarsi
immobile davanti all’osservatore, assolve il compito di guardiano nel modo
più sbrigativo. Incutendo timore nell’avvicinarsi dinoccolato, prima di
pararsi statuario davanti alla persona, in sosta fuori dal recinto della
proprietà, immediatamente, dissolve qualsiasi situazione di potenziale
pericolosità, senza intervenire con la forza. La costruzione che si
manifesta ottimale con il passo dinoccolato assicura pure un trotto
correttamente eseguito. Significa che il mastino napoletano si muove
nell’andatura più veloce del passo tramite la forte spinta del posteriore
e il buon allungo dell’anteriore, altrettanto necessari per sprecare meno
energie durante gli spostamenti. La coordinazione tra gli arti pelvici e
quelli toracici trova proprio nel trotto il modo di evidenziarsi, attraverso
l’allungo che copre il raggio d’azione impresso dalla spinta propulsiva.
Il trotto, perciò, conferma le caratteristiche positive che consentono la
tipica andatura al passo da orso. La lentezza del passo si riflette anche
nel trotto. L’andatura al trotto, pertanto, avviene lentamente. Il trotto
del mastino napoletano, pur coprendo terreno, conseguentemente, è
altrettanto lento e pesante quanto il passo. La lentezza del trotto, per via
della voluminosità, fa sì che il nostro molosso percorre distanze
limitate. L’appesantimento strutturale, unitamente a tutte le altre
caratteristiche, obbligatoriamente, classifica il mastino napoletano come
trottatore lento su brevi distanze. Questa classificazione della tipologia
dinamica del pesante brachimorfo partenopeo è confermata dalla rarità del
suo movimento al galoppo. Non essendo naturalmente portato a muoversi
tramite l’andatura più veloce, significa che la costruzione voluminosa
non lo facilita ad assumere il galoppo, tra l’altro, poco praticato
durante il lavoro di guardia, dove il mastino napoletano spesso si trova in
spazi ridotti. Il galoppo, comunque, è proporzionatamente lento quanto le
altre andature. Resta sottinteso, dunque, che le andature preferibilmente,
nonché costantemente eseguite, sono quelle al passo e al trotto, favorite
dalla costruzione, che ottiene, con esse, il miglior rapporto tra il
dispendio d’energia e la facilità del movimento. L’altra andatura
quadrupedale eseguita dal mastino napoletano è soltanto tollerata. Il
limite di tolleranza dell’ambio è imposto dalla correttezza della
costruzione. In presenza di pari sviluppo tra la metà anteriore del tronco
e la metà posteriore, l’ambio si tollera perché rappresenta un momento
di facilitazione nello spostamento, durante il raggiungimento di una velocità
intermedia tra il passo e il trotto. L’ambio, poi, si presta funzionale
alla fase dinamica grazie alla possibilità di riposare, che offre ad alcuni
muscoli, altresì impegnati durante le altre andature. La tolleranza
dell’ambio, oltretutto, dipende dalla struttura pesante del mastino
napoletano, che la propone come caratteristica facilmente correlata.
L’ambio, infine, è tollerato poiché rappresenta l’andatura che il
mastino napoletano adotta quando il territorio da perlustrare ha una
metratura che richiede troppo tempo per essere percorsa al passo e troppe
energie per essere percorsa al trotto. Il galoppo non rientra in tali fasi,
giacché l’andatura più veloce di tutte parte solo nel caso in cui
occorre raggiungere l’invasore. Obbligato a rincorrere l’invasore al
galoppo, trae vantaggio se, negli attimi precedenti, il cane ha perlustrato
all’ambio, in modo che si ritrova parte dei muscoli riposati, dai quali
attingere piene energie per lo sforzo necessario alla massima velocità.
Pelle Il rivestimento tegumentario del mastino napoletano diventa la
caratteristica tra le più tipiche se ricopre tutto il corpo secondo una
disposizione dappertutto abbondante. L’abbondanza della cute favorisce la
lassità, per cui in ogni punto non è aderente al substrato anatomico. La
pelle totalmente lassa si presta funzionale quando tirata dall’avversario
si stacca dai tessuti sottostanti, allungandosi enormemente elasticizzata.
La lassità, appunto, trae vantaggio quanto più l’abbondanza consente
alla pelle di essere tirata lontano dal corpo, ovviamente, nei limiti
razionali di una disposizione ancora sintonizzata alla tonicità. Il
presupposto di protezione è fondamentale, perché il ferimento della pelle
salva dai ferimenti le parti ricoperte. L’eventuale ferimento della pelle,
oltretutto, è pur sempre meno doloroso del ferimento di un muscolo.
Consegue che il danno è minore, per cui il cane continua a lottare senza
che la pelle ferita condizioni più di tanto il suo intervento durante il
lavoro. I muscoli feriti, invece, condizionano il proseguimento del lavoro,
giacché riducono, se non annullano completamente, l’azione muscolare. La
copertura tegumentaria favorisce ulteriormente il compito di protezione
grazie al suo spessore. La pelle spessa si lacera più difficilmente, perciò
resiste alla penetrazione e riduce le possibilità di ferimenti. Lo spessore
tegumentario, infatti, consente la minore penetrazione, soprattutto, dei
denti, qualora attaccato da un cane avversario. Se il malintenzionato invade
il territorio accompagnato da un cane, destinato ad aggredire il mastino
napoletano posto a sorveglianza, ecco che l’abbondante pelle lassa e
spessa si presta come uno strumento di autodifesa, tanto più efficiente
quanto più queste caratteristiche tegumentarie sono pregevolmente
sviluppate. Lo sviluppo della pelle si presenta come un rivestimento assai
maggiore di quanto il corpo del mastino napoletano ha bisogno. La superficie
della copertura tegumentaria, pertanto, supera di gran lunga la superficie
anatomica sottostante. Presente secondo i pregi suddetti, offre vantaggio
ancora prima di rivelarsi funzionale durante il contatto corpo a corpo. Il
decorso della funzionalità cutanea nel nostro molosso, difatti, comincia
dall’effetto deterrente, che una siffatta copertura incrementa
notevolmente. Oltre ad aumentare la volumetria corporea alla vista, incute
timore l’aspetto decisamente pauroso, che la pelle conferisce al disegno
somatico del mastino napoletano. La pelle ulteriormente sovrabbondante sulla
testa e sul collo accentua l’effetto deterrente. Evidenzia, inoltre, che
queste due regioni morfologiche si giovano dell’abbondanza, nonché della
lassità e dello spessore cutaneo, per confezionare dei disegni
assolutamente caratteristici. La pelle particolarmente abbondante, lassa e
spessa, sulla testa e sul collo, dunque, caratterizza il mastino napoletano,
ma non tanto perché contempla l’accumulo cutaneo inevitabilmente derivato
dalla regione cefalica e da quella cervicale corte, piuttosto per soddisfare
le prospettive funzionali legate al disegno che ne scaturisce ed a ciò che
determina. Le numerose piegature formate nelle due regioni suddette
disegnano un aspetto esteriore che è funzionale al conferimento della più
truce espressione, dettata dal blocco cefalo-cervicale, affinché la
necessità di far paura al malintenzionato, laddove serve al primo impatto
visivo, cioè anteriormente (di fronte), disponga del mezzo supplementare
fornito dalle rughe e dalle pliche cefaliche, nonché dalla giogaia
sottomandibolare e sottocervicale. Mantello Le caratteristiche relative al
pelo e al colore, pur non essendo determinanti ai fini della tipicità,
incorniciano l’aspetto estetico e, finanche, risultano funzionali. Il
pelo, anzitutto, si presenta nella condizione essenziale di essere corto.
Ogni caratteristica, perciò, dipende da quanto il pelo corto fornisce dalle
proprie correlazioni. La varietà dei colori, poi, riporta il cromatismo
tradizionale, divenuto preferibile in certe tonalità rispetto ad altre
soltanto tollerate. Un certo colore, piuttosto di un altro, trova motivo di
perpetuarsi perché trasmesso insieme alle caratteristiche di tipicità.
Nessuna selezione è operata in base al colore del mantello, pur se riveste
dei risvolti da tenere in considerazione. Pelo Lungo non più di 1,5 cm, è
corto al punto che, dappertutto, può presentarsi inferiore alla lunghezza
anzidetta. La misura indicata come lunghezza massima, inoltre, evidenzia il
pelo corto uguale su tutto il corpo. Indipendentemente se raggiunge o meno
la massima lunghezza, che lo fa definire corto, infatti, copre l’intera
superficie corporea senza variazioni, poiché quanto è lungo in una regione
lo è altrettanto in ciascun’altra. L’eventuale variazione di lunghezza
in talune regioni, tuttavia, non lo porta ad evidenziarsi in differenze
confinanti rimarchevoli. La differenza di lunghezza (cortezza), qualora
presente, è talmente minima, neppure da notarsi. Ragion per cui lo si
definisce della stessa lunghezza ovunque, come naturalmente deve essere.
Proprio questo conferma l’inesistenza delle frange, altrimenti viene meno
la lunghezza massima indicata ad escludere possibilità e tolleranza del
genere. Nessun accenno di frangia, difatti, può esserci in un mantello così
corto, nonostante sia fine e liscio (caratteristiche che in altre razze sono
correlate al mantello lungo e alle conseguenti frange). La finezza del pelo
consiste nello spessore tale da non diradare i fori piliferi. Il pelo fine,
perciò, è disposto molto numeroso, al punto che si presenta assai fitto.
La superficie cutanea, conseguentemente, è coperta da un mantello tanto
unito da diventare un involucro pressoché impenetrabile. Fine e corto, il
pelo si dispone uniformemente liscio. Si presenta, pertanto, coricato in
modo da risultare una copertura totalmente aderente alla cute, fino a
contornare il corpo seguendo uniforme ogni piegatura della pelle. La
suddetta disposizione del pelo conferisce densità al mantello. Il pelo
denso crea uno strato di copertura della pelle esternamente resistente.
Corto qual’è il pelo del mastino napoletano, si ricava che la densità
del manto appare come una spazzola. Tutte le caratteristiche fin qui
descritte favoriscono la tessitura vitrea. Il pelo vitreo è idrorepellente
ed autopulente, perciò è funzionale per il cane da guardia che lavora
sempre all’aperto e non è costantemente sottoposto a cure quotidiane
mediante la spazzolatura. Il mastino napoletano interviene in ogni
circostanza, per cui coperto da un mantello dal pelo corto, denso e vitreo,
trae vantaggio quando le condizioni atmosferiche sono avverse. Espelle
facilmente ed immediatamente l’acqua piovana e qualsiasi agente esterno,
come la polvere, che causano fastidio. La tessitura vitrea, oltretutto,
protegge la cute in quanto non consente una facile penetrazione agli
insetti. Il pelo corto e vitreo, infine, non trattiene lo sporco e si
pulisce sbrigativamente. In terreni fangosi, poi, accelera il procedimento
di seccatura del fango addossato, che si stacca dal manto automaticamente,
nel minor tempo possibile. Colore (del mantello) La suddivisione tra quelli
preferiti e quelli tollerati acquisisce solo un significato di menzione, non
certo di apprezzamento degli uni e deprezzamento degli altri. Il colore del
mantello, nel mastino napoletano, difatti, non ha soverchia importanza,
giacché agevola limitatamente la funzione durante la guardia e,
addirittura, nulla determina agli effetti della tipicità (alcun colore è
più tipico di un altro), nonché, nemmeno a favore del lavoro di presa. I
colori preferiti, in sostanza, sono tali perché risultano essere quelli più
diffusi, fermi restando i principi della pigmentazione, correlata a ciascun
mantello. I colori tollerati, al contrario, sono tra quelli poco, se non
raramente, presenti nel percorso storico della razza. L’affinità genetica
che li ha strettamente correlati con le caratteristiche di tipicità e di
funzionalità ha diffuso dei colori piuttosto di altri. Nient’altro di più.
Giammai il colore ha influenzato l’allevamento, sennonché quando si è
trovato addosso ad un portatore di pregi per le suaccennate caratteristiche
tipiche e funzionali. Alcuni colori, talvolta, non godono di favoreggiamento
perché carenti di pigmentazione, al punto da presentare le mucose troppo
chiare, perfino rispetto al mantello, già di per sé chiaro. Un colore,
solitamente chiaro, accompagnato da scarso pigmento, pure delle mucose,
anzitutto, non è favorito nella valutazione estetica prima che selettiva.
Si rivela, quindi, che è la diluizione del pigmento, portata da un colore
predisposto per tale deficienza, a non farlo apprezzare. Un colore (chiaro),
pur predisposto, ma pigmentato scuro alle mucose, viceversa, non è
deprezzato. Tra i colori preferiti, cioè più diffusi, perciò, ci sono
quelli che consacrano la tipicità e, limitatamente, la funzionalità
soltanto perché sviluppati nel corso della selezione. Non tutti i colori
preferiti, però, godono di pari sviluppo e, conseguente, ennesima
diffusione. Ragion per cui il grigio, il piombo e il nero rappresentano
maggiormente la razza, rispetto agli altri colori egualmente preferiti, ma
meno rappresentati, vale a dire il mogano, il fulvo e il fulvo-cervo.
L’ordine di maggior diffusione, tanto storicamente quanto attualmente, è
proprio quello sopraelencato. I primi tre colori summenzionati hanno
condizionato e continuano a condizionare la selezione verso la migliore
tipicità. Il nero, il piombo e il grigio, infatti, sono i colori dei
soggetti più tipici, selezionati nella storia della razza. Le
caratteristiche tipologiche portate con tali colori li ha sviluppati più
degli altri e, per forza, ne ha favorito la loro diffusione, nonché il
principio, in questo caso, oggettivo e non certo soggettivo, della loro
preferenza. Oggetto (appunto) di selezione per le caratteristiche correlate,
presenti in qualità e quantità, quindi, si sono intrinsecati, al punto che
la loro diffusione ha assunto una maggioranza talmente predominante da
rendere rari gli altri colori. I tre colori maggiormente diffusi si
presentano più facilmente a tinta unita, pur se talvolta delle piccole
macchie bianche appaiono al petto e alle punte delle dita. Non c’è
distinzione di sorta, anche stavolta, in fatto a preferenza, tra il nero, il
piombo e il grigio completamente unicolori e quelli macchiati. Le piccole
macchie bianche, d’altronde, non danneggiano l’effetto estetico. Se
arrivano a farlo, vuol dire che raggiungono dimensioni maggiori del dovuto,
sia se è la macchia sul petto ad ingrandirsi, oppure le macchie sulle dita
ad invadere parte oltre le punte. Non si tratta, comunque, di un fattore
soltanto estetico, poiché questi tre colori, quando sono macchiati,
risentono della possibile diluizione del pigmento, specie alle unghie. La
macchia bianca ingrandita sul piede, difatti, favorisce lo schiarimento
della pigmentazione delle unghie nelle dita interessate. Il nero, il piombo
e il grigio macchiati, perciò, nell’essere apprezzati pari a quelli
unicolori, dipendono dall’estensione delle macchie bianche, che mai può
oltrepassare i limiti antiestetici e della corretta pigmentazione. I tre
colori meno diffusi, pur tra quelli preferiti, risentono delle condizioni
selettive contrarie al piombo, al grigio e al nero. Il mogano, il fulvo e il
fulvo-cervo, difatti, hanno dato raramente dei soggetti tipici. Ragion per
cui, tuttora, si presentano saltuariamente, nonostante che la loro
pigmentazione delle mucose è accettata, anche se riflette il colore del
mantello. Se il fulvo-cervo e il fulvo, però, spesso hanno le mucose più
scure, sono parimenti considerati pure se il pigmento è in sintonia al
colore del pelo. Il mogano, invece, è sempre pigmentato chiaro, ma non per
questo è meno apprezzabile. Tutti i colori indicati come preferiti appaiono
anche nella versione tigrata. Significa che ciascuno dei colori
sopraelencati dispone della possibilità di presentare delle strisce
verticali (nel senso delle costole) di un altro colore. Il classico tigrato,
dove il colore di fondo è chiaro e le strisce scure, nel mastino napoletano
si presenta raramente, per le stesse condizioni di cui detto sopra in merito
ai colori meno diffusi. Il mantello tigrato più diffuso nel molosso
partenopeo, infatti, è quello a fondo nero con strisce chiare, tra quelle
appartenenti al fulvo nelle diverse tonalità. Si evince, infine, che anche
i mantelli tigrati godono di preferenza pari a quelli dalla tinta unita.
Sono giovati dal fatto che le mucose sono sempre ben pigmentate, in virtù
della presenza di un colore scuro, sia di fondo, sia di striatura. I colori
tollerati, sostanzialmente, corrispondono alle diluizioni di quelli
preferiti, per cui favoriscono l’insorgere del pigmento chiaro. Il
nocciola, il tortora e l’isabella, infatti, presentano le mucose
scarsamente pigmentate, pur se in sintonia al colore del mantello. Questo
comporta che la tolleranza di detti colori dipende proprio dalla scarsa
pigmentazione generale, tanto del mantello, quanto delle mucose. I fattori
che portano alla preferenza o alla tolleranza, quindi, dipendono dai colori
del mantello scuri e chiari, che determinano il pigmento delle mucose in
sintonia. I colori scuri, pertanto, sono preferiti, tra l’altro, per il
forte pigmento generale, sovente con le mucose più scure del mantello. I
colori chiari, viceversa, sono solo tollerati per via dello scarso pigmento
generale, addirittura, con le mucose più chiare del mantello. Il fattore
pigmento, quindi, dapprima, incide sulla funzione estetica, poiché il
colore del mantello chiaro e le relative mucose, altrettanto, se non più
chiare, sminuiscono l’aspetto generale. Il colore del mantello, poi,
indipendentemente dalla pigmentazione delle mucose, si presta meglio adatto
al lavoro di guardia per due motivi, pur non determinanti, ma non del tutto
indifferenti. I colori scuri, infatti, incidono sull’effetto di guardiano
deterrente, durante il giorno, nonché sull’effetto sorpresa, durante la
notte. Appare logico che il cane da guardia predisposto alla preventiva
mansione di far paura incute maggior timore se il suo aspetto esteriore si
presenta cupo. Niente di meglio, quindi, del mantello più scuro possibile,
che accentua le caratteristiche deterrenti della morfologia, fornendo un
contesto estetico più raccapricciante. Se il mantello scuro, pertanto,
offre alla funzione di guardia un vantaggio del genere durante il giorno,
favorendo la prevenzione, altro vantaggio lo offre di notte, stavolta allo
scopo di entrare in azione senza essere visto dall’intruso. Il mastino
napoletano di colore nero, piombo o grigio, proprio per questo è agevolato
durante la notte, affinché si presta ad intervenire di sorpresa, in quanto
è difficilmente visibile, laddove prevale il buio. Il mantello chiaro, in
proposito, è meno favorito, pur se non debilitato, giacché l’apporto del
colore, come detto, è soltanto marginale alle altre caratteristiche
assolutamente necessarie per le mansioni sopra descritte. Taglia
L’escursione talmente variabile indica che nel mastino napoletano ci sono
delle altre caratteristiche più importanti dell’altezza al garrese. Resta
sottinteso, tuttavia, che ogni caratteristica trova la miglior applicazione
entro la taglia più consone. Una serie di caratteristiche, quantunque siano
meritevoli di maggior attenzione, rispetto all’altezza al garrese
considerata di per sé stessa, acquista vario effetto in seno alla tipicità
e alla funzionalità a seconda se contenuta in una taglia più vicino al
limite minimo o a quello massimo. L’insieme delle caratteristiche, per
quanto valore hanno in base al tipo e alla funzione, trovano il grado di
efficacia dalla taglia che più o meno le valorizza. Il limite minimo posto
ben al di sotto del limite massimo evidenzia l’ammissibilità di
molteplici modelli architettonici in fatto a dimensione corporea dipendente
dall’altezza, che scaturiscono da una tanto differenziata variazione.
L’altezza al garrese che, assommando i due sessi, raggiunge
un’escursione di ben quindici centimetri, tra i limiti desiderati,
sennonché, addirittura, di diciannove centimetri, comprese le tolleranze,
lascia adito ad un’infinita gamma di taglie, sulle quali intervengono
delle precise, quanto indirizzate, considerazioni in merito al modello
architettonico ottimale da perpetuare. La suddivisione tra i sessi riduce il
divario, ma permane pur sempre un netto contrasto entro ciascun sesso.
L’appartenenza alla taglia minima o massima, indipendentemente se maschio
o femmina, infatti, offre delle diverse prospettive, in quanto, comunque, si
antepongono considerevolmente, stante gli otto centimetri di differenza
nelle femmine e persino i dieci nei maschi. Comprese le tolleranze, si
arriva fino ai dodici centimetri delle femmine e, bensì, ai quattordici dei
maschi. Cotanta differenziazione, però, fa sì che le femmine non sono
sacrificate alla sola altezza, dato il loro limite minimo molto basso, nonché
fa rientrare i maschi più piccoli pur sempre nella taglia media del sesso
opposto. Le femmine grandi, d’altro canto, rientrano nella taglia media
maschile. Si ottiene, conseguentemente, il confine del dimorfismo sessuale,
poiché i maschi al limite inferiore si differenziano dalle femmine più
piccole e le femmine al limite superiore si differenziano dai maschi più
grandi. Un sesso, perciò, non sconfina nelle misure esclusivamente
riservate all’altro. Le misure massime dei maschi e quelle minime delle
femmine, inevitabilmente, sono invalicabili, pena il rischio di perdere le
prerogative sessuali, fermo restando che i fattori di mascolinità e di
femminilità non dipendono solamente dall’altezza al garrese. Un maschio
minuto (sottotaglia), cioè sconfinante nelle taglie riservate alle femmine
(tra l’altro, quelle minime anche per il sesso femminile), quanto una
femmina mastodontica, cioè sconfinante nelle taglie maschili (oltre la
taglia media del sesso maschile, quasi nelle loro taglie maggiori),
tuttavia, pur se tipici, non sempre presentano intatte le proprie
caratteristiche legate al sesso d’appartenenza, per cui la tipicità non
si manifesta consone al dimorfismo sessuale. Limiti così distanti,
oltretutto, si differenziano per via di presentare spiccato o ridotto il
contesto della tipicità e della funzionalità. Le stesse caratteristiche
tipiche, infatti, spiccano nelle taglie maggiori; mentre, nelle taglie
minori perdono sempre qualcosa, se non quasi tutto il loro effettivo valore,
salvo dei compromessi che giustificano una simile variazione. La taglia
minima, infatti, non valorizza il tipo quanto la taglia massima. Nemmeno il
caso delle taglie medie supera le taglie massime, visto che il mastino
napoletano tipico trae vantaggio dal presentarsi imponente, perciò
maestoso, altrimenti lo svantaggio è tale da risultare persino
insignificante. Si sa, in proposito, quanto influisce l’altezza elevata.
Ennesima valutazione pure per le caratteristiche funzionali, poiché le
massime altezze conferiscono l’ausilio più utile, stante la prevalente
mansione di cane da guardia deterrente. Il compromesso, che in questo caso
è funzionale, traspare dalla mansione di cane da presa assolta anche dalle
altre taglie (inferiori), nonché, dicasi altrettanto per il movimento.
Ragion per cui il considerevole divario è giustificato. L’altezza al
garrese che va da 65 a 75 cm nei maschi e da 60 a 68 cm nelle femmine, con
la tolleranza di 2 cm in più e in meno, per entrambi i sessi, dunque,
permane valida, perché se verso il limite massimo la tipicità è risaltata
e la funzionalità delle caratteristiche deterrenti è assolutamente
garantita; verso il limite minimo, pur se la tipicità, anche parimenti
presente, non è espressa al meglio, gode vantaggio la funzionalità delle
caratteristiche di deambulazione e, in parte, di presa. A favore del lavoro
di guardia a scopo deterrente, il mastino napoletano dall’altezza maggiore
emette più sensazione di timore, poiché si presenta più imponente e
maestoso (quel che serve per far paura, oltre alle caratteristiche
tipologiche). Questo indipendentemente dal sesso, pur se i maschi,
ovviamente, per via di raggiungere taglie superiori alle femmine, aumentano
ancora più considerevolmente l’effetto deterrente. Una femmina di taglia
massima, tuttavia, è sempre competitiva nella mansione in oggetto.
L’altezza al garrese, però, risulta totalmente efficace se la struttura
architettonica è proporzionata, pena delle forme somatiche sgraziate, al
punto di offrire una sensazione d’incapacità fisica, piuttosto che
esternare la piena potenza anatomica. Il mastino napoletano grande e
proporzionato, infatti, evidenzia le potenzialità custodite in una siffatta
struttura anatomica, tali da incutere rispetto per così tanta
impressionabilità emessa dall’armonia fisica. Le taglie inferiori, come
detto, godono di maggior efficacia nella deambulazione. Questo grazie alla
struttura meno pesante e, soprattutto, alla certa possibilità di presentare
delle adeguate proporzioni. La taglia media, comunque, è sempre
avvantaggiata sulla taglia piccola, poiché le facilitazioni anzidette sono
statisticamente più probabili. La taglia minima, difatti, sovente presenta
le medesime difficoltà della taglia massima, anche a favore del movimento,
risultando sproporzionata per difetti od eccessi egualmente antifunzionali.
La piccola altezza accompagnata dalla struttura troppo leggera è deficiente
quanto la grande altezza con lo stesso difetto strutturale; viceversa, la
piccola altezza accompagnata dalla struttura troppo pesante è eccedente
quando la grande altezza con lo stesso eccesso strutturale. Consegue che, a
favore del movimento, fermo restando la taglia media con le maggiori
probabilità di muoversi meglio, tra l’altezza verso il massimo e quella
verso il minimo, tutte con le dovute proporzioni, l’incedere tipico –
lento e dinoccolato – si manifesta nella misura più funzionale nel
mastino napoletano più grande. Il mastino napoletano più piccolo, però,
è favorito nel movimento che funziona secondo il senso generale del
termine, ossia nel modo di espletare la deambulazione efficacemente
funzionale di per sé stessa, al di là delle caratteristiche strettamente
tipiche. Il favore concesso dalle taglie inferiori alle caratteristiche
della presa, come detto, è ottenuto solo in parte. Questo perché va inteso
relativamente alla constatazione che il mastino napoletano, per quanto
piccolo, pur sempre dispone di una taglia in grado di esplicare un morso
efficace. Ragion per cui qualsiasi taglia risulta funzionale nella mansione
di cane da presa, nel senso più stretto del termine. Resta sottinteso,
anche in questo caso, che il mastino napoletano di grande altezza espleta
una potenza di presa proporzionatamente superiore, pur se in tale mansione
subentrano altri fattori determinanti, tra l’altro, più facilmente
presenti nelle taglie elevate. A favore della presa, indubbiamente, il
mastino napoletano piccolo trae vantaggio nelle azioni di movimento
corollarie al morso. Risulta, comunque, che ogni mansione in cui la nostra
razza è utilizzata gode dei benefici derivati dalle proporzioni,
indipendentemente dall’altezza. Carenze od eccessi strutturali penalizzano
l’architettura generale, al punto che né l’altezza massima, né quella
minima, si prestano funzionali. Strutture troppo leggere non favoriscono
nemmeno l’agilità dei movimenti, tanto nella deambulazione, quanto
nell’azione di presa, a causa della fragilità, che debilita ogni altezza.
Strutture troppo pesanti non favoriscono la potenza anatomica di nessun
genere, giacché si manifestano per niente prestanti, al punto di annullarsi
nei movimenti, oltre che annullare l’effetto deterrente, a causa di
un’altezza, qualunque sia, sminuita dal fattore negativo dell’ingombro
corporeo debilitante nel caso della necessità dell’intervento risolutivo
immediato. Peso La suddivisione tra i due sessi, che comporta i maschi da 60
a 70 kg e le femmine da 50 a 60 kg, è indicativa della dose ponderale del
dimorfismo sessuale. Suddiviso, pertanto, nettamente tra maschi e femmine,
è indicato che l’uno dall’altro sesso, quando di pari altezza, si
differenzia in un peso equidistante, giacché il limite minimo maschile
equivale al limite massimo femminile (diversamente dall’altezza al
garrese, che non è altrettanto nettamente suddivisa, bensì confina entro
un margine più ampio). Il confine del dimorfismo sessuale, relativamente al
peso, dunque, identifica l’indice ponderale assolutamente non paritetico,
per cui nemmeno con un minimo margine condiviso quanto l’altezza al
garrese. Il rapporto tra l’altezza e il peso, ovviamente, è maggiore nei
maschi. La prerogativa del genere, però, non inficia la tipicità e la
funzionalità delle femmine, anzi valorizza l’essenza del dimorfismo
sessuale favorito dal peso. I valori dei limiti ponderali sopraindicati,
automaticamente, seppur teoricamente, si addossano all’altezza minima e
massima. Il maschio di 60 kg corrisponde all’altezza di 65 cm; mentre,
quello di 70 kg è assoggettato a 75 cm. La femmina di 50 kg è associata
all’altezza di 60 cm; mentre, quella di 60 kg è relativa a 68 cm. Vuol
dire che il medesimo peso di 60 kg, appunto, è correlato all’altezza
maschile più piccola di quella femminile, per cui il maschio risulta
proporzionatamente più massiccio. Significa che a pari peso, con
l’altezza più piccola, il maschio riempie di più i volumi rispetto alla
femmina. La medesima altezza (per entrambi i sessi), perciò, individua una
differenza sessuale del maschio in più sulla femmina di 3-4 kg.
Nell’altezza comune ai due sessi, conseguentemente, il relativo limite
minimo accomunato in 65 cm corrisponde a 60 kg nei maschi e a 56 kg nelle
femmine; mentre, il relativo limite massimo accomunato in 68 cm corrisponde
a 63 kg nei maschi e a 60 kg nelle femmine. L’indice ponderale (riferito
al chilogrammo per centimetro) che scaturisce dai rapporti suddetti, quindi,
prevede quello per il maschio sullo 0,93 e quello per la femmina che varia,
rispettivamente dalla mole minima a quella massima, dallo 0,83 allo 0,88
(per cui la media è dello 0,85-0,86). Il rapporto altezza-peso, quindi, è
fissato nel sesso maschile; mentre, in quello femminile è variabile, al
punto che l’indice ponderale valido per le altezze minori non lo è per
quelle maggiori. Viceversa, l’indice ponderale per le altezze maggiori è
valido anche per quelle minori, poiché aumenta il peso, perciò riempie di
più i volumi e proporziona più massicciamente la femmina. Le altezze
comprese nelle tolleranze dei due centimetri in più e in meno, stante
l’indicazione del peso che non contempla aggiunte a quello suaccennato,
conducono a qualche chilo inferiore e superiore ai limiti previsti. Vale a
dire che i maschi di 63 cm pesano 58 kg e quelli di 77 cm sono 72 kg;
mentre, le femmine di 58 cm arrivano a 48 kg e quelle di 70 cm a 62 kg. La
differenza sessuale con la medesima altezza, presa ai limiti estremi di
quella in comune, dunque, trova la femmina di 63 cm sui 54 kg e il maschio
di 70 cm sui 65 kg, per cui permane sempre lo stesso divario di 3-4 kg. Se
non è così sottinteso, bensì il peso indicato, in quanto non riporta la
corrispondente tolleranza, comprende pure i limiti dell’altezza al garrese
tollerata (maschi: 63 cm per 60 kg e 77 cm per 70 kg; femmine: 58 cm per 50
kg e 70 cm per 60 kg), cambia l’indice ponderale summenzionato. I maschi
più piccoli lo presentano sullo 0,95 e quelli più grandi sullo 0,91 (per
cui sullo 0,93 resta solo quale media, ossia per l’altezza mediana);
mentre, le femmine, indistintamente se più piccole o più grandi, lo
annoverano sullo 0,86. L’indice ponderale, al contrario della correlazione
precedente, pertanto, è fisso per il sesso femminile e vario per quello
maschile. Nei limiti inferiori e superiori delle altezze che escludono la
tolleranza, quindi, il peso è ritoccato di 2 kg (le altezze minori
aumentano di 2 kg; quelle maggiori diminuiscono di 2 kg), per cui si riduce
il divario ponderale. I rapporti, infatti, vedono i maschi di 65 cm sui 62
kg e quelli di 75 cm sui 68 kg; mentre, le femmine di 60 cm sui 52 kg e
quelle di 68 cm sui 58 kg. Cambiano, in tal modo, le proporzioni che
riempiono i volumi. Ciò, comporta che i maschi e le femmine dalle altezze
minori presentano delle proporzioni più massicce; viceversa, quelli dalle
altezze maggiori sono meno massicci. Tutto il concetto della tipicità e
della funzionalità è capovolto, dato che in condizioni ponderali del
genere il mastino napoletano assume le prevalenti caratteristiche statiche
di cane da guardia deterrente con l’altezza minore e, viceversa, quelle
prevalentemente dinamiche per l’azione di presa e di deambulazione con
l’altezza maggiore. Viene meno, in tali condizioni, la prerogativa del
cane statico deterrente favorito dalla dimensione corporea
tridimensionalmente più grande. Altrettanto dicasi per il movimento, in
quanto l’altezza maggiore, comunque, risente del peso pur sempre tale da
essere condizionante, per cui perde la prerogativa dinamica spettante
all’altezza minore e dal peso inferiore. Tutta la serie delle correlazioni
prima descritte, poi, subisce delle variazioni non indifferenti, che fa
propendere per il primo caso piuttosto del secondo, giacché i benefici
risultano decisamente migliori. Questi rapporti, qualsiasi sono, però, non
rappresentano nemmeno teoricamente un’indicizzazione fiscalizzata, al
punto da non esserci alcuna variazione. Preso entro i limiti indicati,
invece, nulla vieta che il mastino napoletano dalla minima altezza disponga
di un peso maggiore, finanche rapportato all’opposto. L’escursione del
peso previsto, infatti, è ugualmente teorizzata anche al contrario, cioè
variabile indipendentemente dall’altezza. L’indice ponderale si
modifica, aumentando considerevolmente, appunto, nel caso appena accennato.
Il maschio di 65 cm che raggiunge i 70 kg, presenta l’indice in oggetto
sul 1,08; mentre, la femmina di 60 cm pesante 60 kg lo presenta 1,00
(perfettamente paritetico). Se gli stessi pesi appartengono anche ai limiti
tollerati inferiormente, l’indice ponderale del maschio di 63 cm per 70 kg
è 1,11 e quello della femmina di 58 cm per 60 kg è 1,04. Aumenta ancora
nel caso delle altezze minori, che arrivano a pesare quanto è
indicativamente applicabile per i limiti tollerati superiormente. Vale a
dire che l’indice ponderale del maschio di 63 cm per 72 kg è 1,14 e
quello della femmina di 58 cm per 62 kg è 1,07. Gli indici ponderali così
modificati non creano problematiche di sorta in una razza che fa della mole
massiccia lo strumento di lavoro. Negativo è viceversa, ossia se il maschio
di 75 cm pesa 60 kg e la femmina di 68 cm pesa 50 kg. Casi del genere,
opposti ai precedenti, annoverano un indice ponderale (0,80 per il maschio e
0,74 per la femmina) decisamente insufficiente, perciò antifunzionale.
Peggio se questi stessi pesi si manifestano ai limiti di altezza tollerati
superiormente. L’insufficienza funzionale dell’indice ponderale di 0,78
del maschio di 77 cm per 60 kg e di 0,72 della femmina di 70 cm per 50 kg è
palese. Non da meno ne risente la tipicità. Il divario tra degli indici
ponderali estremizzati secondo tale opposizione, tuttavia, è talmente
enorme che nel mastino napoletano non coesistono, nonostante
l’ammissibilità sia ampliata dai limiti ben distanziati. Il freno
all’escursione del peso in rapporto all’altezza al garrese,
indubbiamente, è posto dalla volumetria. Ragion per cui l’altezza
beneficia del peso che riempie i volumi. Il peso ridotto, addirittura,
decisamente troppo, per un mastino napoletano alto, perde le facoltà
volumetriche. Come descritto sopra, la funzionalità diminuisce fino a
ridurre completamente ogni efficacia e la tipicità è totalmente assente.
Considerando che la funzione di cane da guardia deterrente gode del più
efficace beneficio se il mastino napoletano presenta una dimensione
strutturale imponente, per cui risponde meglio la massima altezza al
garrese, anche in virtù del concetto anzidetto, è impossibile il rispetto
tassativo dei limiti di peso previsti, soprattutto, per quelli superiori. Le
altezze al minimo, nell’usufruire della massima escursione ponderale fino
al limite superiore indicato, si prestano certamente più funzionali, in
ragione al conseguente aumento volumetrico. Peccato, però, che il volume
acquisito con il peso dal rapporto aumentato è pur sempre ridotto a causa
dell’altezza inferiore. Il rapporto altezza-peso, infatti, per quanto si
presenta elevato, perde sempre qualcosa di funzionale se addossato ad una
taglia ridotta al minimo. Si avrà una mole effettivamente massiccia, ma pur
sempre entro un’altezza contenuta, che ne limita la funzionalità. Ragion
per cui, comunque, è preferita l’altezza maggiore, specie se annovera il
peso più appropriato possibile. Applicando lo stesso criterio che beneficia
l’altezza minore con il massimo peso indicato, decretando l’aumento
dell’indice ponderale sopra calcolato, ecco che il maschio di 75 cm
raggiunge gli 81 kg e la femmina di 68 cm i 68 kg. Ai limiti superiori di
tolleranza si trova l’aumento di 2 kg, cioè il maschio di 77 cm arriva a
83 kg e la femmina di 70 cm a 70 kg. Secondo i successivi indici ponderali
calcolati sulle suddette possibilità, il rapporto altezza-peso si assesta
su dimensioni assolutamente massicce. Relativo ai maschi, l’indice
ponderale di 1,11 trova i 75 cm sugli 83 kg e i 77 cm sugli 85 kg; mentre,
quello di 1,14 trova i 75 cm sugli 85 kg e i 77 cm sugli 87 kg. Relativo
alle femmine, l’indice ponderale di 1,04 trova i 68 cm sui 70 kg e i 70 cm
sui 72 kg; mentre, quello di 1,07 trova i 68 cm sui 72 kg e i 70 cm sui 74
kg. Il peso, pertanto, sulla base iniziale dei 60-70 kg per i maschi e dei
50-60 kg per le femmine, raggiunge facilmente gli 87 kg maschili e i 74 kg
femminili. Organi sessuali maschili L’integrità dell’apparato genitale
si manifesta con i testicoli di aspetto normale e ben discesi nello scroto
quando la loro dimensione è proporzionata alla mole, nonché quando sono
trattenuti abbastanza aderenti al corpo. La dimensione non è esigua, ma
nemmeno esagerata, poiché, pesando troppo, trascinano lo scroto a
rilassarsi enormemente. La borsa scrotale non è troppo grande, al punto da
allungarsi a dismisura. Lo scroto appesantito e rilassato porta i testicoli
troppo distanti dal corpo, per cui sbatacchiano contro gli arti posteriori,
causando fastidio durante il movimento. Aumentano, inoltre, la possibilità
di essere presi dall’avversario. Oltre che antiestetici, dunque, sono pure
antifunzionali. I testicoli normalmente sviluppati e contenuti nello scroto
a mò di piccola borsa non infastidiscono come quelli a penzoloni.
Segnalano, inoltre, che il cane è tonico. Difetti Qualunque variazione
dalle caratteristiche etniche ideali è difettosa, soprattutto, quando
altera la tipicità e la funzionalità. La penalizzazione, in sede di
giudizio, secondo la gravità, si applica più il difetto diminuisce od
accentua il tipo e riduce l’espletamento della funzione. Tanto
l’ipotipo, quanto l’ipertipo, sono difettosi. La riduzione della
funzionalità, tuttavia, dipende da differenti fattori. L’ipotipicità è
comunque difettosa, dato che fa perdere ogni caratteristica utile a
qualsiasi mansione, almeno quelle espletate secondo le peculiarità della
razza. L’ipertipicità, invece, favorisce ulteriormente la mansione
prevalente del mastino napoletano. Le caratteristiche ipertipiche, infatti,
forniscono un aspetto maggiormente deterrente, per cui nella guardia incute
più paura. Il lavoro di prevenzione, quindi, è garantito da una migliore
efficacia, fermo restando che già il tipo ideale è pienamente adatto al
compito. Se l’ipertipo è funzionale nella guardia deterrente che previene
l’intrusione, al punto di non richiedere l’intervento nella presa, non
significa che il mastino napoletano debba fare a meno delle relative
caratteristiche inerenti a quest’altra mansione. Ragion per cui il
compromesso tra l’aspetto deterrente e le potenzialità della presa assume
l’equilibrio delle caratteristiche, a difetto dell’ipertipicità. Altro
compromesso che toglie valore all’ipertipo è la funzionalità
locomotoria, per cui la riduzione delle capacità di movimento penalizza il
mastino napoletano ipertipico, poiché tende ad essere carente di tonicità.
La gravità verso l’ipotipo o l’ipertipo, però, è a sfavore del
modello diluito piuttosto di quello accentuato. Il mastino ipertipico,
appunto, nonostante sia difettoso, perlomeno è funzionale nella mansione
cui la razza è prevalentemente indirizzata. Utilizzato nella guardia a
scopo deterrente, come detto, non riduce la funzionalità, bensì ne
consente l’aumento. I difetti penalizzati sulla base della loro
diffusione, quindi, tengono conto di ciò che comportano. L’ipertipo,
pertanto, qualora sia più diffuso dell’ipotipo, non prevede una maggior
penalizzazione dell’uno piuttosto dell’altro, relativamente a questo
unico fattore. Il mastino napoletano ipotipico, assolutamente, è da
penalizzare; mentre, quello ipertipico, anche se più diffuso, merita
particolare attenzione prima di calcolare la sua gravità in rapporto alla
diffusione. L’ipertipo, certamente più diffuso dell’ipotipo, dunque, è
penalizzabile soltanto secondo il criterio della gravità delle
caratteristiche accentuate, che tolgono le potenzialità della presa e le
capacità di movimento. Ogni deviazione dalle caratteristiche etniche in
piena tipicità e funzionalità, infine, è penalizzata mediante la
rilevazione nelle varie regioni, ma commisurate nell’insieme del valore
generale. Difetti eliminatori dal giudizio L’esclusione di un mastino
napoletano dalla stesura della relazione completa da parte del giudice
avviene quando si riscontra il prognatismo pronunciato, il portamento della
coda a tromba e l’altezza al garrese deficiente od eccedente. Uno solo di
questi difetti comporta l’immediata eliminazione, con la mancata
assegnazione della qualifica, nonostante tutto il resto presenti delle
eventuali caratteristiche interessanti. La chiusura anteriore dei denti con
gli incisivi inferiori sopravanzati, rispetto a quelli superiori, porta
all’eliminazione dal giudizio quando il difetto è pronunciato. Significa
che il prognatismo, di per sé, è già un difetto, qualunque sia la misura
che lo determina, ma è escluso in esposizione solo se la protrusione
mandibolare è eccessiva. Il prognatismo pronunciato è inteso – in
cinognostica – quando deturpa l’aspetto esteriore del muso, al punto
che, a bocca chiusa, si vedono i denti e, talvolta, anteriormente, esce la
lingua (pure se di lunghezza normale). L’accentuazione della chiusura
prognata, che distanzia troppo i denti anteriori mandibolari da quelli
corrispondenti dei mascellari superiori, tuttavia, comporta ugualmente
l’eliminazione dal giudizio, anche se non deturpa visibilmente l’aspetto
esteriore del muso, perché annovera le ossa facciali eccessivamente
raccorciate. La mascella superiore non sviluppata in lunghezza presenta un
grave handicap funzionale, tra l’altro, perché perde efficacia durante il
morso, in quanto si riduce la superficie di presa. La pressione mandibolare
apportata nella chiusura del morso, poi, non trova pari opposizione nella
mascella superiore, che disperde buona parte della potenza impressa dai
muscoli masticatori. La funzione a mò d’incudine della mascella
superiore, pertanto, non è sufficiente a sopportare l’effetto del
martello della funzione mandibolare. Il prognatismo pronunciato, essendo il
solo grado del difetto di chiusura dentaria eliminatorio dal giudizio,
consente alla chiusura leggermente prognata di ottenere la qualifica. Il
leggero prognatismo, quindi, è giudicato quanto le regolari chiusure a
forbice e a tenaglia, pur se bisogna tenerne conto come difetto, quale
deviazione dalle caratteristiche ideali, che sono penalizzate in rapporto
alla gravità e alla diffusione. Il prognatismo, appunto, aumenta di gravità
più diventa pronunciato, pertanto, finché è minimo, non riporta problemi
preoccupanti. L’aumento del prognatismo, invece, preoccupa anche dal punto
della regolare respirazione, poiché la canna nasale perde efficacia
funzionale, a causa della lunghezza limitata, che accelera l’attività
d’inspirazione ed espirazione. Il flusso respiratorio, così, aumenta
d’intensità, sottoponendo a maggior sforzo gli organi preposti, vale a
dire che i polmoni sono sovraccaricati di lavoro e, conseguentemente, il
cuore è costretto ad accelerare i battiti. La menomazione appare evidente,
perché affatica il cane oltre il dovuto, in ogni azione dinamica. Il
prognatismo, proprio per la mansione prevalente di cane da guardia a scopo
deterrente, perciò sottoposto ad un movimento limitato, però non menoma più
di tanto, quindi, secondo questo uso, non rappresenta un difetto
(funzionale) eccessivo, perlomeno, finché non altera la tipicità.
L’eliminazione dal giudizio per causa della coda portata a tromba
penalizza non tanto e solo un difetto estetico, piuttosto un difetto
anatomico. La coda portata alta in movimento supera notevolmente il limite
di sollevamento posto a livello orizzontale o appena più elevato del dorso.
Il portamento dell’appendice caudale troppo sopraelevato segnala che i
muscoli interessati a muovere la coda non sono tutti parimenti normalmente
sviluppati. La coda, infatti, assume la posizione a tromba perché i muscoli
sottostanti, addetti ad abbassarla quando si contraggono (nel momento in cui
il cane è a riposo), dimostrano di essere atrofizzati. I muscoli
antagonisti, ovvero quelli superiori, che alzano la coda, conseguentemente,
non trovano opposizione dai muscoli inferiori, per cui portano l’appendice
caudale a sopraelevarsi con facilità. Ciò, denota che la coda si abbassa
per il rilassamento dei muscoli sovrastanti, che fa prendere peso caudale
verso il basso, invece, che per il normale lavoro degli appositi muscoli
sottostanti. I muscoli non parimenti sviluppati, inoltre, venendo meno il
loro antagonismo funzionale, non lavorano in modo da trattenere la coda
secondo il tipico portamento. La coda amputata, qualora sia portata alta, è
pur vero che non accentua la curvatura, altrimenti l’effetto estetico è
ancor più peggiore, ma permane ugualmente la figura a tromba. La
conchectomia, quindi, togliendo l’accentuazione del difetto, non impedisce
il danno muscolare suaccennato. L’altezza al garrese deficiente od
eccedente esclude dal giudizio perché comporta delle problematiche di
tipicità e di funzionalità non indifferenti. La deficienza dell’altezza
presenta un mastino napoletano talmente minuto da perdere tutte le
caratteristiche che lo rendono imponente e maestoso. La tipicità viene
meno, a causa della riduzione dell’insieme strutturale, che sminuisce la
presentazione di ciascuna caratteristica somatica. Il mastino napoletano
minuto perde il tipo al massimo grado, poiché tutto è ridotto di
dimensione, per cui drasticamente i volumi non esistono. La piccola altezza
dovuta alla riduzione dell’impalcatura scheletrica, infatti, presentando
delle inerenti proporzioni fisiche, oltre ai diametri verticali, perde pure
i diametri trasversali, che sono assolutamente necessari per ottenere lo
sviluppo volumetrico. Il mastino napoletano dall’altezza inferiore al
limite minimo della tolleranza è notevolmente penalizzato durante il
lavoro, in quanto non dispone delle caratteristiche di funzionalità consone
alle mansioni cui è sottoposto. Nella guardia si dimostra poco deterrente,
perché tutto si presenta sminuito, al punto da renderlo perfino incapace di
far paura, per quello che ci si attende da un cane del genere. Ciò è
dovuto non tanto alla piccola altezza di per sé stessa, quanto alle
proporzioni che perdono l’effetto deterrente, appunto, per via di
presentare altrettanto piccola la dimensione corporea. L’effetto
deterrente, infatti, non è espresso al meglio, a causa della minutezza che
alleggerisce il complesso strutturale, fino a dimostrarlo misero in forza e
prestanza fisica. L’inefficacia dell’altezza ridotta si manifesta anche
durante l’azione di presa e di deambulazione. La forza misera non consente
una prestanza fisica tale da dimostrarsi potente. L’impatto contro
l’antagonista perde la possibilità di favorire la presa nel modo più
semplice, a causa della mancata sottomissione dell’avversario, ottenibile
nel corpo a corpo, che consente di poter assestare il morso senza eccessivo
sforzo. Il morso, poi, non usufruisce della potenza mandibolare, giacché
una struttura architettonica proporzionata alla piccola altezza offre poca
pressione. Il movimento, infine, non decreta la tipica andatura lenta e
dinoccolata, bensì velocizza ogni azione dinamica. La prospettiva,
tuttavia, cambia quando l’altezza deficiente è dovuta agli arti corti. Il
mastino napoletano vittima del mancato sviluppo in lunghezza delle ossa
degli arti, causante soltanto la riduzione dell’altezza al garrese, però,
non è compromesso nello sviluppo di tutto il resto del corpo. Le
proporzioni si presentano pur sempre sbagliate, anche se a causa di una sola
caratteristica negativa, ma restano intatte tutte le peculiarità che
favoriscono le funzioni, soprattutto, quelle della guardia deterrente e
della presa, piuttosto della deambulazione. Il mastino napoletano basso
sugli arti, difatti, mantiene invariate le caratteristiche che incutono
paura, poiché perfino i volumi corporei persistono elevati, per cui
espleta, ancora egregiamente, sia la funzione deterrente nella guardia, sia
la funzione del morso troncante nella presa. Se le condizioni di staticità,
utili alle funzioni suddette, aumentano grazie all’abbassamento del
baricentro corporeo entro dei diametri trasversali ugualmente sviluppati,
quelle che favoriscono il movimento vengono decisamente meno, dato che una
siffatta costruzione diminuisce gran parte delle caratteristiche dinamiche.
A favore del mastino napoletano piccolo perché basso sugli arti, rispetto a
quello piccolo perché minuto, permane la peculiarità di muoversi secondo
l’andatura lenta e dinoccolata, pur se in modo accentuato. Questo rivela
che una costruzione del genere rappresenta un prototipo ipertipico, al
contrario dell’ipotipicità fornita dalla struttura ridotta. Resta
invariata, comunque, l’eliminazione dal giudizio delle altezze inferiori
ai limiti tollerati, per cui i maschi di 62 cm e le femmine di 57 cm,
indipendentemente dalla minutezza generale o dalla bassezza sugli arti, non
ottengono la qualifica, pur se possono riprodurre. L’eccedenza
dell’altezza, ovviamente, presenta le caratteristiche negative contrarie,
anche se non opposte nel risultato conclusivo, in quanto conducono sempre
all’eliminazione dal giudizio in esposizione (non dalla riproduzione). Il
mastino napoletano eccede nei limiti di tolleranza superiori sovente a causa
dell’esagerato sviluppo in lunghezza degli arti e dei diametri verticali
del tronco. Questo indebolisce la struttura architettonica, se non è
sostenuta dall’aumento dei volumi. I diametri trasversali che favoriscono
i volumi, tuttavia, se allargano la costruzione per proporzionarla
all’altezza troppo elevata, richiedono un peso enorme. La struttura,
conseguentemente, si appesantisce, al punto che la funzionalità dinamica è
gravemente menomata. Il movimento è ottenuto faticosamente. L’azione di
presa pure. La perdita delle facoltà dinamiche, tra l’altro, compromette
anche quel grado d’agilità che serve durante il corpo a corpo con
l’avversario, favorendo l’antagonista a divincolarsi prima di essere
afferrato in presa. Resta pur vera la potenzialità del morso ancora più
potente, ma calano le possibilità di poterlo immediatamente assestare, cioè,
nel più breve tempo possibile. Il vantaggio apportato dall’altezza
eccedente è rivolto alla funzione della guardia a scopo deterrente, dove il
mastino napoletano troppo alto propone pur sempre un effetto che incute
timore, indipendentemente se costruito leggero o pesante. Si presta ovvio
che più la struttura alta è pesante, maggiore è la sensazione di paura
recepita dall’osservatore. L’effetto deterrente, infatti, pur
persistendo in ogni caso, diminuisce più l’altezza è esagerata e più la
struttura è alleggerita, al punto di perdere le proporzioni. Il mastino
napoletano sgraziato dalla costruzione alta e longilinea, quindi
sproporzionata, fa paura lo stesso, ma molto meno rispetto al caso opposto.
L’aspetto somatico sgraziato dalla costruzione alta ed appesantita,
difatti, incute maggior timore, perché quel mastino napoletano appare
talmente enorme, che nulla toglie all’effetto deterrente la condizione
fisica di essere ugualmente sproporzionata. Lo svantaggio, a causa delle
motivazioni anzidette, avviene quando il mastino napoletano troppo alto e
pesante interviene sull’intruso. L’intervento, però, usufruisce del
favore ottenuto dall’impatto fisico, che dispone di un peso tale da
annullare in breve tempo l’azione avversaria, grazie alla massa che piomba
addosso come un macigno. Le altezze superiori ai limiti tollerati, pertanto,
in qualche caso, risultano funzionali più dei limiti superati
inferiormente, pur se penalizzate da una serie di condizioni, comunque,
sfavorevoli. L’altezza al garrese di 78 cm ed oltre nei maschi, nonché di
71 cm ed oltre nelle femmine, tra le altre cose negative, causa un divario
insostenibile entro una razza di grande mole come il nostro molosso. I dieci
centimetri maschili e gli otto femminili, che diventano, rispettivamente,
quattordici e dodici con la tolleranza, se superati in più o in meno di
qualche altro centimetro, espongono la razza ad una difformità
intollerabile entro un programma di selezione che già usufruisce di un
divario alquanto estremo nel raccogliere tutto quanto è possibile in tipo e
funzione. Ragion per cui l’eliminazione dal giudizio dissacra anche il
mastino napoletano troppo alto, oltre a quello troppo basso, pur
acconsentendo di farlo riprodurre, in quanto talune caratteristiche
suddette, che si rivelano positive in merito a casi particolari, sono
indispensabili alla razza. Vanno eliminate entro i contesti predetti, ma
recuperate a favore delle altezze comprese nei limiti ideali e in quelli
tollerati. Difetti da squalifica La serie di difetti quali la chiusura dei
denti enognata; gli assi longitudinali superiori cranio-facciali convergenti
e divergenti; la canna nasale concavilinea e convessilinea; il tartufo e le
palpebre completamente depigmentati; l’iride gazzuola; gli occhi -
entrambi – strabici; l’assenza di rughe, pliche e giogaia; la
criptorchidia, anche solo unilaterale; la coda assente, oppure cortissima,
sia per causa congenita, sia per intervento strumentale; la presenza di
macchie bianche sulla testa e sul resto del corpo (in questo secondo caso,
solo se di grande dimensione); non escludono soltanto dal giudizio in
esposizione, ma prevedono che i soggetti colpiti siano eliminati anche dalla
riproduzione. Avverrà burocraticamente con il ritiro del pedigree, per cui
i portatori non potranno avere figli iscritti al libro genealogico. Alcuni
di questi difetti sono assoluti, cioè portano alla squalifica (= radiazione
dall’allevamento) in ogni razza. Tutto ciò che riguarda l’enognatismo,
ossia la mandibola raccorciata, al punto da far sopravanzare la mascella
superiore, con la conseguenza della chiusura anteriore dei denti contraria
al prognatismo, è di estrema gravità. Valgono le stesse condizioni
anatomiche del prognatismo, appunto, essendo praticamente il difetto
inverso, ma subentra una serie ben più numerosa di fattori negativi, non
solo per la funzionalità durante il lavoro. Il cane enognato, in sostanza,
presenta enormemente alterato il proprio quadro fisiologico, pur se non è
facilmente rilevato nell’immediatezza funzionale. Il mastino napoletano
colpito da questo difetto, infatti, finanche espleta certe mansioni, ma
perde tutte le potenzialità delle regolari performance utilitarie, oltre ad
avere l’esistenza compromessa. L’enognatismo, effettivamente, non
impedisce al nostro molosso di far paura, mostrandosi ugualmente deterrente
nella guardia, ma riduce cronologicamente le potenzialità fisiologiche
dell’organismo. La presa, poi, perde decisamente efficacia (per le
condizioni opposte al prognatismo). La prestanza fisica, inoltre, non è
ottimale nemmeno in età matura e compromette il raggiungimento della
vecchiaia, stante le difficoltà che inficiano qualsiasi funzione vitale. La
presenza delle pupille oculari strabiche crea dei problemi di vista che
limitano la prestazione durante la guardia e qualsiasi altra mansione. Lo
sguardo non esprime il carattere e lo stato d’animo, giacché sembra
perdersi nel vuoto. Uno sguardo così menomato non incute nemmeno timore,
perché privo dell’effetto fornito quando le pupille fissano
anteriormente. Gli occhi entrambi strabici, quindi, sono difettosi, tali da
portare giustamente alla squalifica, mentre non vale altrettanto per un solo
occhio strabico, conseguentemente inseribile nei difetti da penalizzare in
base alla gravità. Se lo strabismo bilaterale è da condannare, per la
totale inibizione degli occhi, invece, quello unilaterale non prevede la
squalifica, per via che un occhio è normale. Resta da constatare che, però,
in sede di giudizio, già il fatto di poterlo ritenere un difetto
penalizzabile, in rapporto alla sua gravità, permette di tenerlo in dovuta
considerazione, a causa dei problemi visivi, comunque, creati. Lo strabismo
unilaterale, tuttavia, costituisce un difetto che non ha una scala
degradante di gravità, bensì è grave come si presenta. La criptorchidia,
indipendentemente se bilaterale od unilaterale, rappresenta un difetto
assolutamente da bandire, per le problematiche riproduttive che sancisce. Il
criptorchidismo propriamente detto, cioè quello bilaterale, ovvero con lo
scroto privo di entrambi i testicoli, testimonia il livello conclusivo della
degenerazione cominciata dalla monorchidia (assenza di un solo testicolo).
Il criptorchidismo unilaterale, pertanto, è combattuto, anche se il
testicolo presente nello scroto è normalmente disceso e sviluppato. Il
monorchidismo, indubbiamente, è parimenti grave al criptorchidismo. Il
difetto, infatti, esiste ugualmente tanto con uno, quanto con due testicoli
non discesi, al punto da non svilupparsi, viceversa, come avviene se
contenuti completamente nella loro sede naturale. Trattenuti nel ventre
oppure in alto, a causa del cordone testicolare non sufficientemente lungo
da trasferirli entro (in fondo) la borsa scrotale, già dall’età
infantile (da cucciolo), si atrofizzano. Gli altri difetti da squalifica
sono relativi al mastino napoletano (nonché a quelle razze che li
contemplano con la stessa indicazione), in quanto nella nostra razza portano
ad escluderli dalla riproduzione, mentre in qualche altra razza non avviene
altrettanto e, addirittura, alcuni di questi rappresentano i loro caratteri
di tipo. Il caso degli assi longitudinali superiori del cranio e del muso è
proverbiale. Il parallelismo cranio-facciale, quale imprescindibile
caratteristica di tipicità del mastino napoletano, porta fuori tipo la
convergenza e la divergenza. Il comportamento assiale diverso dal
parallelismo, infatti, pregiudica l’insieme delle caratteristiche della
testa, al punto che altera il sistema craniometrico determinante la tipica
espressione. Gli assi cranio-facciali che perdono il loro proseguimento
binario descrivono delle teste ipertipiche od ipotipiche, a seconda se sono,
rispettivamente, convergenti o divergenti. Entrambi i casi presentano pari
effetto negativo. Se la divergenza, però, non ammette controversie di
sorta; la convergenza, sovente, è associata al prognatismo, altresì, di
per sé non squalificato. La direzione assiale convergente, dunque, conduce
alla squalifica anche il correlato prognatismo, altrimenti ammesso alla
riproduzione nel raro caso sia presente in una testa parallela. La testa
convergente è ipertipica, perché accentua il tipo a mò di caricatura. La
testa divergente, invece, è ipotipica, perché il tipo lo diluisce. Questo
dipende dal fatto che la convergenza è prerogativa delle razze
(prevalentemente, quelle create dall’Uomo) del ceppo molossoide oggetto di
una selezione artificiale spinta (bulldog, boxer, ecc.), invece, che
rustica, come quella da cui deriva il nostro mastino; mentre, la divergenza
è prerogativa delle razze appartenenti ad altri ceppi, distanti dalla
nostra razza. Il comportamento degli assi cranio-facciali si associa
all’andamento della canna nasale. Quando è concava esiste la convergenza;
viceversa, se convessa, esiste la divergenza. Questi casi, comunque,
rappresentano la deviazione del solo asse facciale; mentre, l’asse
craniale persiste parallelo. Si tratta, effettivamente, di monoconvergenza e
monodivergenza (facciale). La canna nasale concava predispone il profilo
superiore del muso incurvato verso il basso, per cui dalla base craniale
parte scavato per risalire verso il tartufo, raggiungendo la massima
curvatura inferiore nel tratto centrale della lunghezza facciale. La
presenza delle pieghe della pelle sul dorso nasale tende a mascherare la
concavità, che spesso, però, si rivela mostrando il tartufo rialzato. La
faccia superiore del tartufo così conformata, rispetto all’orizzontale,
disegna il proprio profilo a “margine di piatto”, che si vede tale,
nonostante l’anzidetta copertura tegumentale corrugata. La canna nasale
convessa, contrariamente, predispone il profilo superiore del muso incurvato
verso l’alto, per cui dalla base craniale parte saliente per discendere
verso il tartufo, raggiungendo la massima curvatura superiore sempre nel
tratto centrale della lunghezza facciale. La presenza delle pieghe della
pelle sul dorso nasale tende ad accentuare la convessità, al punto che il
tartufo appare molto abbassato. La faccia superiore del tartufo disegna il
proprio profilo sempre a “margine di piatto”, in questo caso,
rovesciato. Il profilo facciale convesso, perfino, raggiunge
l’accentuazione eccessiva del tutto fornita anatomicamente, per cui il
muso è molto convesso, tale da assumere una configurazione montonina,
ulteriormente accentuata dalle pieghe della pelle. La canna nasale molto
montonina diverge ancor di più l’asse longitudinale superiore facciale,
per cui il tartufo si abbassa in modo ben evidente. Succede, anche, che il
tartufo è abbassato di per sé, nonostante il profilo nasale sia rettilineo
ed indipendentemente dall’effetto convesso determinato dalla pelle ivi
corrugata. Si tratta sempre di asse divergente, pur se dovuto solamente al
profilo del tartufo, stante la rilevazione che avviene alla sua punta, che
più bassa della linea retta dell’intera canna nasale lo altera di quel
poco ugualmente difettoso. Non va confuso con l’effetto suddetto, causato
dalle pieghe cutanee sovra-nasali, che dà l’impressione del tartufo
abbassato rispetto al profilo del muso, invece, perfettamente rettilineo,
come dimostra la sua faccia superiore rilevata sull’orizzontale. Le
summenzionate pieghe della pelle, qualora assenti, non solo sul muso, ma
pure sul resto della testa, alterano l’aspetto tipico della nostra razza.
La mancanza delle rughe e delle pliche sulla regione cefalica condiziona
anche la presenza della giogaia al margine inferiore del collo. Tutto ciò
toglie la caratteristica etnica fondamentale del mastino napoletano.
L’abbondanza tegumentale viene meno sull’intero corpo, per cui la nostra
razza perde delle peculiarità essenziali, anche dal punto di vista
funzionale nel lavoro di guardia a scopo deterrente e nell’ausilio
all’intervento in presa. La predisposizione al movimento, pur aumentando
per una sicura tonicità, tuttavia, danneggia le predette funzioni, che sono
prevalenti alla deambulazione nel criterio di valutazione del mastino
napoletano. Il pigmento che più interessa nella nostra razza riguarda due
punti strettamente importanti nel conferire l’espressione. Ragion per cui
il tartufo e le palpebre completamente depigmentati portano alla squalifica.
Il rapporto con il colore del mantello condiziona la loro pigmentazione. Il
pigmento non correlato già disturba visibilmente, per cui, addirittura, se
è totalmente assente, si aggrava il tutto. Il tartufo depigmentato balza
immediatamente alla vista dell’osservatore; mentre, per le rime delle
palpebre oculari serve porre apposita attenzione. Se è la depigmentazione
totale ad essere squalificata, significa che qualora il tartufo e i bordi
palpebrali lo siano parzialmente vanno penalizzati in rapporto alla gravità,
per cui più manca il pigmento, più la penalizzazione è grave. Riguardo
alle rime palpebrali, la depigmentazione totale è da squalifica solo nel
caso sia bilaterale. Devono essere totalmente depigmentate le palpebre di
entrambi gli occhi, altrimenti è prevista la penalizzazione secondo la
modalità anzidetta. Il pigmento privo totalmente nelle palpebre di un solo
occhio, quindi, non porta alla squalifica, nemmeno se le palpebre
dell’altro occhio hanno una pigmentazione parziale. La depigmentazione
totale unilaterale, pertanto, non è considerata così grave quanto quella
bilaterale. Il colore degli occhi prevede la squalifica se è gazzuolo. La
presenza anche di un solo occhio gazzuolo porta ad escluderlo dalla
riproduzione. L’occhio gazzuolo, anzitutto, condiziona la salute
fisiologica, in quanto è spia di una scarsa pigmentazione generale, che
indebolisce l’organismo del cane. L’iride gazzuola, poi, non si presta
della massima funzionalità visiva, giacché non riflette la luce solare. La
colorazione gazzuola, per questo, non è funzionale nemmeno durante il
lavoro di guardia, poiché anche la luce artificiale di una torcia
elettrica, che l’invasore del territorio sottoposto alla vigilanza del
mastino napoletano punta contro il cane, riduce la visibilità notturna.
Sempre in materia di pigmento, quello relativo al mantello assume difetto da
squalifica in presenza di macchie bianche, laddove non sono previste
delimitatamene circoscritte. Se le macchie bianche al petto e alle dita,
entro i limiti indicati, non pongono condizione alcuna, qualora siano
allargate oltre il dovuto già vengono escluse dalla riproduzione. La
piccola macchia bianca sul petto che supera tale dimensione, quanto il
bianco che copre una parte maggiore delle punte ditali, sono già
teoricamente squalificanti. Il confine di tali limiti, tuttavia, se
abbastanza identificabile sul piede, lo è di meno sul petto, giacché non
è facile porre un limite ben preciso alla macchia bianca entro la piccola
dimensione definita con tale termine che, comunque, può variarla, pur non
più di tanto. Resta sottinteso che, per quanto definito
approssimativamente, il limite del bianco pettorale dipende
dall’estensione ragionevole, in grado di non pregiudicare il contesto del
colore generale del mantello. Il bianco sul petto, tuttavia, va visto
secondo quel permissivismo che, prima di procedere alla squalifica, è bene
condizionarlo alla tipicità del soggetto in esame. Permissivismo
applicabile a meno che la macchia bianca al petto non si possa più definire
piccola, ma sia tale da non creare dubbi sulla sua sconfinante dimensione
media. Lo stesso vale per il bianco sul piede che, come detto, pur meglio
circoscrivibile, in quanto limitato alle punte delle dita (falangette),
quando invade il resto retrostante (falangi e falangine) è teoricamente da
squalifica, a meno che la tipicità del soggetto faccia soprassedere a
qualche centimetro di troppo. La presenza squalificante delle macchie
bianche quando sono molto estese, in effetti, è relativo laddove è
consentito. Su altre zone corporee, dato che il colore del mantello è
descritto uniforme, una macchia bianca di qualsiasi dimensione è gia
(molto) estesa oltre il dovuto. Significa, allora, che il bianco situato
dappertutto, ovviamente, tranne al petto e alle dita, è da squalifica, pur
se la macchia è piccola. Lo stesso è ben chiaro per la testa, giacché
basta che la macchia bianca ci sia per escluderla dalla riproduzione. I
difetti riguardanti la coda prevedono che, tanto l’assenza, quanto la
presenza limitata dell’appendice caudale, conducono alla squalifica. La
coda, pertanto, deve esserci e secondo una lunghezza consone a non
decretarla brachiura. Presentandosi corta oltre il dovuto, dunque, modifica
le caratteristiche estetiche e funzionali, che traggono vantaggio dalla
consistenza caudale manifestata per un tratto terminale maggiore.
L’appendice coccigea che si presenta molto spessa per una lunghezza
adeguata rende un effetto estetico di potenza ossea, grazie allo sviluppo
scheletrico ravvisabile lungo tutte le vertebre terminali esterne al tronco.
L’effetto estetico anzidetto si traduce nella funzione di ausilio ai
movimenti di lotta nel corpo a corpo, in occasione dell’intervento in
presa, che una coda corta, per quanto spessore anatomico sia dotata, non può
espletare. Il brachiurismo, però, è da escludere dalla riproduzione solo
quando deriva da una mutazione genetica, onde evitare che si trasmetta. La
coda brachiura congenita si ravvisa alla nascita, ma in età adulta ciò
crea il dubbio che possa dipendere da un intervento artificiale. Il
brachiurismo artificiale, per il semplice fatto che non è trasmissibile,
non può prevedere ugualmente la squalifica, ma solo l’eliminazione dal
giudizio, per le motivazioni suesposte. La coda conchectomizzata fino a
renderla brachiura, tuttavia, nasconde delle insidie che riguardano il
possibile intervento umano per togliere un difetto anatomico, altrimenti
antiestetico o, finanche, antifunzionale. Ragion per cui pure il
brachiurismo artificiale va squalificato, seppur soltanto in via
precauzionale. Resta il rammarico di poter escludere dalla riproduzione un
soggetto conchectomizzato fino a renderlo brachiuro solo per un errore umano
compiuto all’atto della regolare amputazione. Lo scopo della squalifica
del brachiurismo da apportare anche nel caso artificiale, oltre che
congenito, pertanto, è preventivo ai problemi genetici che si possono
perpetuare nelle generazioni. Altra situazione in merito al brachiurismo
artificiale consiste che, pure se è dovuto per togliere un difetto caudale
visibile fin da cucciolo, oppure manifestato in età più avanzata, per cui
si è provveduto all’intervento chirurgico, permane il dubbio di un
difetto non meritevole di cotanta squalifica, al punto di poter bastare solo
l’eliminazione dal giudizio, per poi usarlo in riproduzione, grazie alle
altre caratteristiche decisamente più importanti. La presenza della coda
cortissima, d’altronde, non è facilmente riconducibile al fatto se è
congenita od artificiale, per cui la squalifica corre d’obbligo, tranne se
il soggetto è stato sottoposto all’intervento chirurgico in età adulta,
dopo aver subito un trauma che lo ha inevitabilmente portato a diventate
brachiuro, specie se già presentato precedentemente in esposizione con la
coda amputata secondo la lunghezza regolare e testimoniato da chi lo ha
giudicato prima del brachiurismo apparso artificialmente. La coda anura,
invece, non ammette replica di sorta, giacché dipende solo da un fattore
genetico negativo. L’anurismo, pertanto, è dovuto ad una mutazione
genetica, che merita assolutamente la squalifica.
Sito web consigliato dallo staff: www.cinofilia-crepaldi.it
Questo articolo è protetto dalle Leggi
Internazionali di Proprietà.
E' PROIBITA la sua riproduzione totale o parziale, all'interno di qualsiasi
mezzo di comunicazione
(cartaceo, elettronico, ecc.) senza l'autorizzazione scritta dell'autore.